ALIGHIERO IN CONCERTO: ROMANTICO

04 febbraio 2010

Alighiero in concerto: Romantico è una raccolta di duetti tratti da celebri brani del repertorio ottocentesco rielaborati per giovani violinisti. La parte del primo violino è per allievi dal II corso, mentre quella del secondo per allievi dal III corso.
Firmato da Antonella Aloigi Hayes e Carlo Mormile, il volume fa parte della fortunata serie diAlighiero – il ranocchio violinista beniamino dei bambini – di cui condivide le impostazioni e le finalità: affrontare lo studio dello strumento fin dai primi corsi attraverso il grande repertorio. Grazie a un’accurata selezione dei brani, opportunamente adattati e semplificati, gli allievi affrontano le difficoltà tecniche in maniera graduale, superandole con facilità e motivazione. E’ proprio la bellezza del repertorio a fungere da stimolo allo studio e al superamento delle difficoltà.

 

Eseguendo la propria parte in duo, insieme al maestro o a uno studente di livello più avanzato (II violino), i giovani violinisti saranno coinvolti in un’esecuzione completa e soddisfacente e potranno vivere la gioia di fare musica insieme. I duetti sono suddivisi per autore e grado di difficoltà; sono corredati di esercizi preparatori e scale con varianti ritmiche e colpi d’arco che affrontano i passaggi tecnici più impegnativi.

Per ogni brano sono forniti cenni introduttivi e notizie biografiche sul compositore nell’intento di stimolare la curiosità dei ragazzi e il loro interesse per la storia della musica. Il volume è corredato di un CD GUIDA che contiene preziosi consigli per lo studio oltre alla registrazione di tutti i duetti. Grazie al sistema “minus one” è possibile escludere all’ascolto ciascuno dei due violini:  silenziando la parte dell’allievo, si potranno eseguire i brani in duo anche a casa.

Alighiero in concerto: Romantico Brani celebri del repertorio romantico per due violiniAutori: Antonella Aloigi Hayes e Carlo Mormile – Collana Curci Young 2009 – Prezzo: € 15,00 Informazioni per il pubblico: info@edizionicurci.it   www.edizionicurci.it Seguono: la scheda tecnica dettagliata e le biografie degli autori.Sono disponibili immagini ad alta risoluzione della copertina e dell’ideatrice della serie: Antonella Aloigi Hayes.

Alighiero in concerto: Romantico
SCHEDA TECNICA
Principali aspetti tecnici affrontati nel volume Mano destra: vengono affrontati i principali colpi d’arco e consolidate la conoscenza e la padronanza dei suoi vari punti. Mano sinistra: la prima posizione è consolidata grazie alla proposta di varie tonalità maggiori e minori. Attraverso gli esercizi preparatori l’allievo svilupperà un maggior controllo dell’intonazione e la capacità di estendere e articolare le dita con elasticità e leggerezza. Nei brani ad andamento veloce la mano sinistra acquisirà velocità, leggerezza, precisione, indipendenza e allo stesso tempo coordinazione rispetto alla mano destra. Nei brani ad andamento lento si approfondirà il vibrato. 

BIOGRAFIE DEGLI AUTORI

Antonella Aloigi Hayes – Fin dall’infanzia Antonella si dedica con passione allo studio della musica e del violino in particolare, sotto la guida di famosi didatti e violinisti, quali Arrigo Pelliccia e Felice Cusano, diplomandosi brillantemente presso il Conservatorio G. Verdi di Milano. Segue il perfezionamento in Italia e all’estero con violinisti quali W. Luzzato, J. Schroeder (violino barocco), L. Kaplan, D. Bogdanovic, che hanno contribuito a ispirarla e gettare le basi di una carriera poliedrica, rivolta alla didattica e alle pubblicazioni per bambini, alla direzione di orchestre di giovani e alla musica da camera.

Vincitrice di concorsi e borse di studio già durante gli studi, spalla dell’Orchestra del Conservatorio G. Verdi, suona per diversi anni con orchestre da camera e sinfoniche, tra cui: Angelicum, CARME, Il Collegio dei Musici, Orchestra Sinfonica G. Verdi, Piccola Sinfonica di Milano, Orchestra Femminile Europea, Orchestra Mozart, Meadows Chamber Orchestra, Philomusica of Edinburgh, Scottish Chamber Orchestra. Durante la permanenza a Edinburgo (Scozia) inizia ad interessarsi alla didattica e ai metodi innovativi per diffondere la passione per la musica e lo studio del violino tra i giovani.

Frequenta il corso per la didattica degli strumenti ad arco di Sheila Nelson presso la Guildhall School of Music e consegue l’abilitazione all’insegnamento del metodo Suzuki presso il British Suzuki Institute di Londra. Per arricchire ulteriormente la sua formazione e la comprensione del linguaggio musicale completa inoltre il livello avanzato della Music Learning Theory di Edwin E. Gordon e frequenta corsi e seminari sui metodi Kodaly, J. Dalcroze e il New approach to violin playing di Kato Havas. Ha partecipato a corsi, conventions e seminari sul metodo Suzuki in Gran Bretagna, Italia, Scozia, Malaysia, USA, dove ha anche frequentato il corso sull’educazione dei genitori al metodo Suzuki con la pianista americana J. Luedke.

Dal 1999 collabora con le EDIZIONI CURCI contribuendo a diffondere lo studio del violino in Italia tramite l’utilizzo di un repertorio specifico per i bambini e i ragazzi, che porti divertimento e piacere nello studio, grazie ad una metodologia graduale che trae spunto dal repertorio classico e popolare e dalla tradizione violinistica italiana. Nel 2000, dopo aver collaborato con il Maestro Giovanni Verga presso il CDM di Milano, fonda la sua scuola di musica per bambini dai tre ai tredici anni “I Piccoli Musicisti”, che riscuote notevole successo e negli anni si sviluppa e ingrandisce, arrivando a comprendere attualmente più di duecento studenti e otto docenti coinvolti nel progetto. Dal 2005 collabora con l’Associazione Collegium Philarmonicum di Napoli come direttrice d’orchestra e docente nei corsi estivi internazionali.

I suoi allievi superano regolarmente con il massimo dei voti gli esami dell’ Associated Board of the Royal Schools of Music, risultano vincitori di concorsi. Antonella è stata chiamata diverse volte in qualità di membro esterno per gli esami di ottavo corso e diploma di violino presso il conservatorio di Como.Nel 2008 Antonella si trasferisce con la famiglia a Kuala Lumpur (Malaysia), entrando a far parte della Allegro Music and Arts School, come consulente per gli strumenti ad arco, insegnando violino, musica da camera, orchestra e collaborando alla preparazione di un curriculum di studi per il diploma in violino.

Collabora come docente di musica da camera con la International School of Kuala Lumpur e dal 2009 insegna violino e musica d’assieme nell’ambito dei corsi di formazione per insegnanti nel metodo Suzuki presso la Malaysia Suzuki Association (Kota Kinabalu-Sabah), per la quale organizza corsi estivi, seminari, presentazioni al pubblico, manifestazioni e concerti con lo scopo di promuovere negli stati della Malesia la conoscenza del metodo Suzuki, del violino e della musica classica. A Kuala Lumpur è inoltre attiva come esecutrice, partecipando a concerti e manifestazioni di musica da camera, in particolare sponsorizzando e diffondendo la conoscenza della musica italiana attraverso il supporto dell’Ambasciata Italiana in Kuala Lumpur. Di recente Antonella si è esibita per i reali della Cambogia e per la Regina e il Re della Malesia.

Carlo Mormile – Diplomatosi in pianoforte, ha proseguito con Bruno Mazzotta i suoi studi in composizione e musica corale e direzione di coro. Successivamente ha conseguito il diploma di perfezionamento in composizione presso l’Accademia Nazionale di S. Cecilia in Roma, e il diploma di merito presso l’Accademia Chigiana di Siena, sotto la guida di Franco Donatoni.

Presso l’Accademia Chigiana ha inoltre frequentato i corsi di Informatica Musicale con Jean-Baptiste Barriere e Musica per Film con Ennio Morricone. Nel ‘93 ha vinto una borsa di studio SIAE per il “Seminario Musica e Immagine” tenuto da Carlo Savina. E’ autore di numerosi brani eseguiti da prestigiosi esecutori quali Bruno Canino, Michele Lo Muto, Myriam Dal Don, Tiziana Scaldaletti, Daniela Del Monaco, Giorgio Magnanensi, Giuseppe Scotese, Stefania Rinaldi, Nuove Sincronie, Ensemble Octandre, I Solisti del San Carlo, Orchestra Alma Mahler Sinfonietta, I Piccoli Musicisti, Orchestra Giovanile Collegium Philarmonicum.

Alcune sue composizioni sono state trasmesse da Radio Rai. Ha collaborato inoltre con importanti artisti del teatro di prosa quali Antonio Casagrande, Peppe Barra, Mariano Bauduin, Cloris Brosca. Su incarico del Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli, ha revisionato la cantata “Di tre dee sull’Ida” (1701) di Domenico Sarro la cui prima esecuzione moderna è stata realizzata dall’ensemble “La Risonanza” nell’ambito della stagione autunnale 2001 del Teatro di San Carlo.

Come esecutore dedica la sua principale attenzione alla musica del ‘900, ed alla produzione contemporanea. Nel 2002 ha istituito presso il Conservatorio di Napoli il “Laboratorio Corale San Pietro a Majella”, gruppo di supporto alle esercitazioni didattiche della classe di Musica Corale e Direzione di Coro. Con questo gruppo ha diffuso la produzione dei giovani compositori napoletani dirigendo i loro brani in importanti manifestazioni quali: Ravello Festival, Festival Teatro Italia, Premio Massimo Troisi, Il Maggio dei Monumenti, I Venerdì Musicali del San Pietro a Majella.

Nel 2003 ha realizzato per l’associazione L’Accordeon in qualità di condirettore artistico, il “Corso di Formazione Professionale per Professori d’Orchestra” che ha ricevuto il contributo dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali attraverso il Fondo Unico per lo Spettacolo e il patrocinio del Teatro di San Carlo. Sempre per l’associazione l’Accordeon ha curato la direzione artistica delle edizioni 2003 e 2007 della rassegna Festival al Teatro Romano di Sessa Aurunca, i cui cartelloni avevano prestigiose presenze quali: Orchestra del Teatro di San Carlo, Orchestra Media Aetas, Orchestra di Roma e del Lazio, Roberto De Simone, Mariano Rigillo, Franco Iavarone, Antonella Morea.

Dal 2002 presiede l’associazione Collegium Philarmonicum che produce l’omonima formazione orchestrale e il corso Vacanze Musicali in cui hanno esercitato docenza: Dejan Bogdanovic, Pierre Henri Xuereb, Stefano Pagliani, Myriam Dal Don, Mauro Tortorelli, Manuel Meo, Gabriela Drasarova, Laura Valente, Girolamo De Simone, Gennaro Cappabianca, Antonella Aloigi.

All’attività musicale ha da sempre affiancato quella di saggista, scrivendo articoli per le riviste Musica Domani, il Monocordo e  Konsequenz di cui è componente della direzione scientifica. Con la relazione ufficiale “Appunti di viaggio” ha partecipato al simposio internazionale “Musical cognition and behavior” tenuto dall’Università la Sapienza di Roma e i principali aspetti della sua poetica sono riportati nel saggio “Autoanalisi” inserito nell’Enciclopedia Italiana dei Compositori curata da Renzo Cresti. Ha insegnato Teoria e Solfeggio, Armonia Complementare, Armonia Contrappunto Fuga e Composizione nei conservatori di Potenza, Matera, Como, Avellino, Napoli. Attualmente è docente del corso di Musica Corale e Direzione di Coro presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli.

Nota: Indicatissimo anche per adulti attempati come il sottoscritto…
Claudio Rampini

I 90 anni di Piero Farulli.

13 gennaio 2010

Ho fatto il mio primo ingresso nella Scuola di Musica di Fiesole nel 1993, ma non ero lì per studiare come uno dei tantissimi allievi, bensì per far conoscere il mio lavoro di giovane liutaio agli insegnanti. Mi aggiravo nei corridoi della Scuola con una certa circospezione e cautela per timore di dare disagio nell’interrompere le lezioni. E poi non ho mai amato fare il piazzista, ma per farmi conoscere da qualche parte dovevo cominciare. Da perfetto sconosciuto percorrevo i corridoi in silenzio, aspettandomi un “scusi lei dove va?” e di essere cacciato da un momento all’altro; dal primo all’ultimo piano sentivo suonare tanti strumenti, un florilegio di note che mi dava un certo conforto.

 

Sembravano tutti così indaffarati, vedevo tanti allievi scendere e salire le scale con le custodie dei loro strumenti, tutti giovani e perfino bambini con i loro genitori, era un’immagine inconsueta per me e lentamente cominciai a capire che forse non avrei trovato nessun guardiano del tempio a sbarrarmi il passo, forse potevo anche avere l’ardire di chiedere qualche informazione in segreteria. E così fu, non solo mi furono indicate le aule e gli orari degli insegnanti, ma fui accolto perfino con qualche sorriso, non nascondo che fui preso da un certo euforico ottimismo.Gli insegnanti che conobbi furono tutti molto gentili, disponibili e prodighi di consigli, mi fu addirittura commissionata una viola piccola per un giovane studente fiorentino, ma il mio incontro con il M° Farulli avvenne più tardi, non avevo alcuna fretta perché avevo un timore reverenziale così forte nei suoi confronti, che il solo pensiero di incontrarlo mi dava un leggero capogiro. Invece conobbi Adriana, con cui ho avuto un rapporto splendido fin da subito e che mi chiese se potevo procurare una custodia per la preziosa viola Sderci del Maestro.

Fui felice di accettare l’incarico, ma il motivo di soddisfazione più grande fu quello di instaurare prima di tutto un rapporto di parità sul piano umano, e che la qualità dell’amicizia non è dettata dai biglietti da visita; io ho sempre creduto questo nella mia vita e questo ho trovato nella Scuola. Restava tuttavia l’incognita dell’incontro con il Maestro, sentivo parlare di lui dagli allievi e dai loro insegnanti e più collezionavo racconti e aneddoti, più aumentava la mia paura di trovarmelo davanti, egli era diventato nella mia mente una specie di Convitato di Pietra.

Non si trattava di racconti dell’orrore, nessuno è mai stato divorato dal M° Farulli, quel che emanava l’atmosfera è riassumibile in una sola parola sola: Impegno. Ricordo quando Adriana mi parlava della durezza degli esordi della Scuola, della fatica dell’impegno e della passione che ne derivava, ricordo il Maestro suonare con tutti, dal più giovane degli allievi, al musicista di fama mondiale. Ma le mie esitazioni e i miei timori ebbero vita breve perché nella Scuola non c’è mai stato tempo per i convenevoli e si badava soprattutto all’essenziale, non c’era tempo per sentirsi a disagio perchè da quelle parti il coinvolgimento è travolgente.

Fu così che iniziai la mia partecipazione alle lezioni concerto presso le scuole fiorentine, i miei amici musicisti suonavano, ed io raccontavo gli strumenti e il lavoro per costruirli. Fu un lavoro molto bello e importante, era una gioia poter trasmettere ai bambini il senso vero, artigianale dell’esperienza musicale. I risultati furono talmente incoraggianti che mi fu concesso di organizzare una mostra di liuteria presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, ma sarebbe stata un’esibizione monca se non ci fosse stata completa disponibilità degli amici musicisti e degli allievi della Scuola. Spesso, anche oggi, vengono organizzate mostre di liuteria dove non si sente suonare un solo musicista, dove gli strumenti giacciono appesi nelle vetrine, inanimati, ridotti al silenzio.

Invece la nostra mostra doveva essere viva, rumorosa, popolata da tante persone, dove i bambini e gli adulti potevano toccare gli strumenti, vederli, annusarli, solo così avrebbero potuto capire che la musica ha una sorgente. Furono più di dieci giorni di piena immersione nella musica, ogni giorno c’erano due concerti, uno la mattina e un altro il pomeriggio, ed io sempre impegnato a guidare le scolaresche nel percorso didattico. E’ stata per me una lezione indimenticabile e che porto avanti ancora oggi, l’ultima lezione concerto l’ho tenuta ultimamente nel comune di Castel Madama dove ho trasferito da qualche tempo il mio laboratorio, ed altre lezioni ci saranno in futuro.

Ma, a parte gli incontri nel suo studio, nelle aule durante le lezioni e una conferenza stampa che facemmo insieme a Palazzo Vecchio per annunciare la mostra, non potevo dire di avere veramente incontrato il M° Farulli. E’ vero, gli avevo portato a far vedere una mia viola, mi aveva raccontato dei suoi trascorsi con Sderci e qualche volta mi prendeva perfino in giro quando mi incontrava nei corridoi, come quando mi disse da lontano “morirai di fame!”. Me lo aveva già detto una volta, quando mi parlava della durezza del mio lavoro, io mi misi a ridere e gli risposi “grazie Maestro, cercherò di ricordarmelo!”.

Lui sorrise con quella sua aria sorniona e beffarda prima di sparire in una delle tante aule a far lezione. Dopo tanti anni ho capito che aveva ragione, e che se vuoi fare bene il tuo lavoro, lo stomaco è l’ultima cosa a cui devi pensare. Tuttavia sentivo sempre mancarmi un’occasione d’incontro con il Maestro, mi portavo dentro un senso di irraggiungibilità che non riuscivo a spiegarmi e che senz’altro dipendeva da un certo mio modo di interpretare i rapporti umani. Non era una cosa che si poteva risolvere con una cena, o semplicemente facendo una passeggiata parlando di musica.

Occasioni del genere c’erano anche state, come quando partecipavo alle bellissime feste della musica del 24 Giugno, insieme abbiamo ascoltato la musica tutto il giorno e la sera tutti eravamo ripagati da una formidabile cena alla luce delle stelle con il panorama fiorentino sotto i nostri occhi. Gli anni sono passati e ho sviluppato un amore viscerale per la musica da camera, nessuna altra formazione può permetterti meglio di un quartetto di ascoltare l’essenza degli strumenti ad arco. Non ricordo come avvenne esattamente, eppure il Maestro mi aveva parlato delle incisioni che aveva fatto con il Quartetto Italiano per la Philips, ma non le conoscevo molto bene.

Quella è stata una mia mancanza molto grave, ma non mi sentivo in colpa perché ho avuto la fortuna di ascoltare il Maestro dal vivo nei concerti per gli amici e durante le lezioni. Ma quando, anni dopo, scoprii la grandezza dell’integrale dei quartetti di Beethoven del Quartetto Italiano, caddi come in una specie di stato contemplativo, ogni nota, ogni colpo d’arco, ogni respiro, presero vita. Fu un’esperienza così intensa che volli sapere tutto il possibile sul Quartetto Italiano: ho conosciuto le persone che li hanno ascoltati, ho ripercorso le tappe del loro inizio a Carpi, ho ascoltato musica negli stessi luoghi dove loro hanno suonato.

E mi sono perfino ricordato di aver assistito ad un concerto del Maestro insieme ad altri giovani, una sera alla Badia Fiesolana, erano i primi anni ’80 ed io non sapevo nemmeno come era fatto un violino. Ne parlai anche con il compianto amico Arrigo Quattrocchi, che definì le esecuzioni del Quartetto Italiano in modo perfetto “razionalità vuol dire il primato della ragione sull’emozione, o meglio una emozione che scaturisce proprio dal rigore della ragione.”

Mi ricordai dei giorni passati alla scuola, mi sono rivisto passare davanti gli allievi, i loro strumenti e le loro note, l’ho visto che faceva ritorno a casa una sera, accompagnato da Adriana dopo aver assistito ad un concerto al Teatro Verdi ed io che andavo loro incontro per salutarli. Non hai senso se non hai una storia, e non c’è nessun senso in quello che fai se non lo trasmetti agli altri, è stato per questo che tempo fa decisi di fare dono alla Scuola di una delle mie viole, uno strumento del 1994, con il desiderio di far parte anch’io di quella grande storia. Era l’anno in cui frequentavo la Scuola in modo più assiduo e qualche volta aiutavo Adriana a sistemare le sedie per i concerti della Festa della Musica, dove ho visto molti bambini diventare musicisti.


Articolo di Claudio Rampini, apparso nell’ ottobre 2009 su “Civiltà Musicale”

Il grande dilemma: violino antico o violino nuovo?

02 settembre 2009

Oggi invito gli utenti del Portale del Violino alla lettura di un articolo a firma del Prof. Renato Meucci dal titolo “Antico e Nuovo”, che compare nel numero di Settembre della rivista Amadeus. Si tratta di uno scritto che a mio parere affronta il tema degli strumenti della liuteria antica e contemporanea in modo piuttosto superficiale. Ho quindi deciso di scrivere a mia volta un articolo in risposta che tenti di bilanciare almeno in parte il danno che si è perpetrato all’immagine della nostra liuteria. Il peggio, purtroppo, è che il danno lo si è fatto pensando di fare un omaggio alla nostra tradizione.


Ma veniamo ai fatti.

L’articolo esordisce con una domanda dal sapore retorico: “chi è stato il più grande liutaio della storia?” Naturalmente si risponderà “Antonio Stradivari!”. E poi come non menzionare i Guarneri, gli Amati e tutti gli altri grandi della classicità cremonese?

 A questo punto il Prof. Meucci constata che nella rosa dei nomi dei “migliori” difficilmente sarà incluso un nome di un liutaio contemporaneo e si spinge alla formulazione di un’altra domanda retorica, che io sintetizzo per amor di brevità: “Ma allora i liutai contemporanei a chi vendono i loro strumenti? Solo a studenti di conservatorio e a musicisti mediocri? (nell’articolo si parla più opportunamente di musicisti di “discreto talento”).

Si rende necessaria una prima riflessione: io e molti dei miei colleghi liutai non ci siamo mai posti il problema del “migliore”, e anche il Prof. Meucci dovrebbe sapere molto bene che in ambito scientifico e storico-artistico, il “migliore” è un concetto del tutto aleatorio che nemmeno il più sprovveduto degli studenti si sognerebbe di usare. Si guarda alla storia della liuteria italiana, o meglio si dovrebbe guardare in modo obiettivo. Ogni autore, da quello che ha segnato un’epoca, a quello cosiddetto “minore”, è portatore di una originalità di pari dignità, e non è mai stato raro il caso di liutai che si ispirarono e si ispirano ancora oggi al lavoro dei “minori” con ottimi risultati estetici e acustici.

 Forse il professore voleva parlare dei liutai più “famosi”, anziché di quelli “migliori”?
Procedendo nella lettura, si viene informati del fatto che anche oggi vengono costruiti strumenti di grande valore artistico, ma sono preso da una leggero senso di vuoto: dove sono andate a finire tutte quelle generazioni di liutai che hanno fatto la storia della liuteria dalla seconda metà del 1700 fino a tutto il 1900? Possibile che uno Storioni, un Candi, un Soffritti, uno Scarampella, un Capicchioni, solo per citarne qualcuno a caso, non siano stati capaci di costruire capolavori?
A giudicare dalle cifre piuttosto alte a cui vengono venduti questi violini cosiddetti “d’epoca”, non si direbbe che siano così scadenti.

Secondo l’articolo la differenza più grande tra un violino antico (probabilmente si intende di epoca stradivariana), e uno contemporaneo (quelli dell’800 nemmeno a parlarne), sembra consistere nel fatto che i primi sono venduti a prezzi esorbitanti rispetto ai secondi. La constatazione è deprimente: “la quotazione dei migliori strumenti contemporanei non raggiunge nemmeno quella dei più scadenti esemplari del passato”.

 Ancora una volta ci si pone la questione del “migliore”, ma davvero vorrei spiegata in termini comprensibili la differenza tra un violino migliore e uno peggiore, perché mi sembra che l’articolo faccia intuire che qualcuno quelle differenze sia ben capace di percepirle. Purtroppo a me non è dato di possedere altrettanta chiarezza di idee, anzi, ogni volta sono costretto a passare svariate ore nei teatri per cercare di capire la natura dei suoni. Ho come il vago presentimento che, differenze di prezzo a parte, si stia tentando di far passare l’idea che gli strumenti contemporanei suonino bene come quelli antichi, che tutti lo sapevano ma nessuno si è mai azzardato a dirlo. Ma forse sono troppo sospettoso, meglio andare avanti con la lettura.
Nel prosieguo dell’articolo ci si sofferma su alcune “dimenticanze” che si provvede a a recuperare per il bene del nostro intelletto e della nostra liuteria: ci si dimentica troppo spesso che gli strumenti antichi sono “ammodernati” e che non suonano più come erano nati. E non si dice mai che i violini antichi sono strumenti fragilissimi e delicatissimi che richiedono infinite cure (invece gli strumenti contemporanei non hanno bisogno di nulla, funzionano sempre e non si rompono mai?).

E non si dice nemmeno che certi famosi solisti, pur possedendo strumenti antichi di valore, non di rado, e con fare quasi truffaldino aggiungo io, amano presentarsi al pubblico con strumenti ben più moderni!

E invece noi del pubblico, poveri ingenui, pensavamo di essere di fronte a chissà quale famoso Stradivari o Guarneri.
Purtroppo, secondo il Prof. Meucci, gli strumenti di nuova o recente costruzione non posseggono lo stesso velo di suggestione e di mito che caratterizza gli strumenti antichi. Chissà, mi domando io osservando gli strumenti dei liutai contemporanei, se questo velo mitologico caratterizza anche il suono, oltre che l’apparenza degli strumenti antichi?
Eppure, non riesco a togliermi dalla testa il pensiero che il pensiero che qui si stia tentando di farci capire che le uniche differenze tra violino antico e contemporaneo siano nella testa di chi li osserva e che invece ci sia una equivalenza pressoché assoluta per ciò che riguarda il suono.
E che dire poi di quei “gravi casi di cronaca recente”, in cui le famiglie si sono rovinate investendo cospicui capitali in strumenti del tutto sovrastimati? Lasciamo che siano i “grandi investitori” a prendersi i rischi del caso. Invece uno strumento contemporaneo è un investimento sicuro e sempre garantito? Ai musicisti l’ardua risposta. Ma soprattutto coloro che hanno già fatto incauto acquisto di violini antichi o d’epoca, potranno dormire sonni tranquilli.
Molto onestamente il Prof. Meucci omette di fare una lista dei “migliori” liutai contemporanei, probabilmente temendo una specie di rivolta da parte di altri “migliori” inopinatamente esclusi dall’Empireo. Ci si limita alla vaga segnalazione di una quindicina di maestri che secondo il Prof. Meucci rappresenterebbero il meglio della produzione italiana, ma bisogna prendersi la briga di scoprirli da soli questi “migliori”.
Ritengo che sia una fortuna che il Prof. Meucci non li abbia fatti quei nomi, per quanto mi è dato di sapere, egli non è mai stato né un liutaio, né un musicista, quindi non capisco a chi sia destinato questo suo articolo. Probabilmente non ai musicisti, che pure in molti amano leggere Amadeus, e probabilmente nemmeno ai liutai.

Infine, il Prof. Meucci cede alla tentazione e cita un liutaio e anche l’occasione in cui uno dei suoi strumenti è stato suonato: il M° Greiner e il vincitore dell’edizione 2006 del Premio Paganini, Feng Ning. Questa è la prova provata, inconfutabile ed incontrovertibile: si può vincere un concorso importante anche con uno strumento contemporaneo, senza necessariamente sfoggiare uno strumento antico e dal nome altisonante. Come se nelle passate edizioni del Premio Paganini i concorrenti si siano presentati tutti con strumenti di Stradivari, Guarneri, Amati e via dicendo. Come se il solo fatto di possedere uno strumento antico importante costituisca un biglietto d’ingresso per il paradiso, o il discrimine che distingue il musicista “migliore” da quello “discreto”.

 Si dà il caso che il sottoscritto sia un liutaio dedito solo alla costruzione di strumenti nuovi, niente commercio di strumenti antichi, e che pure dovrebbe essere grato a chi ha perorato in modo così appassionato la causa degli strumenti contemporanei, anche se probabilmente il mio nome non sarà mai compreso nell’Empireo dei quindici “migliori”. E forse dovrò accontentarmi solo di aver permesso a molti studenti di conservatorio di diventare musicisti “discreti”.
Le considerazioni fatte in questo articolo mi offendono, così come offendono la dignità del lavoro di molti colleghi che pure affrontano la loro fatica quotidiana con coscienza e passione, che ogni giorno studiano il lavoro degli antichi maestri per capirne non solo l’aspetto tecnico, ma anche quell’essenza spirituale che nell’articolo viene definita come “velo di mito e suggestione”. Si vorrebbe far intendere che ormai la liuteria classica non ha più segreti, e che magari non esistano più incertezze e lacune riguardo gli strumenti antichi, ma così non è e non sarà mai.

Oggi in una realtà di mercato globalizzato che funesta anche la produzione liutaria contemporanea, il “miglior” liutaio è quello che riesce a sviluppare e a tener fede ad una propria identità, a non cedere alle tentazioni stereotipizzanti di un certo mercato, a contenere la propria produzione nei limiti dell’umano senza ricorrere all’aiuto delle macchine utensili a controllo numerico e a fare a meno di strumenti e pezzi prelavorati in Cina o nell’est europeo.

 Ovviamente il mercato del violino antico ha, da sempre, le sue contraddizioni e i suoi problemi: il modo in cui vengono redatti i certificati e vengono realizzati i restauri sono spesso causa di controversie tecniche e legali. Ma è soprattutto la quasi totale mancanza di controllo su ciò che viene stabilito dagli esperti di fama internazionale, quasi sempre senza neppure uno straccio di una documentazione scientifica, come avviene in altri campi dell’arte come la pittura o la scultura.
E’ contro il nostro stesso interesse ergere differenze tra gli strumenti di ieri e quelli di oggi. La continuità della tradizione tra strumento antico e moderno è ancora molto aldilà dall’essere recuperata, paradossalmente è proprio il lavoro di alcuni dei “migliori”, sia italiani che stranieri, ad essere spesso avvolto da un mito artificiale creato a bella posta per la seduzione delle anime belle.

Spero che l’edizione di quest’anno di Mondomusica serva anche a questo genere di riflessioni e non solo a mere questioni di mercato, ma che soprattutto a parlare di liuteria siano i liutai e i musicisti.

Claudio Rampini

L’eredità di Simone Fernando Sacconi

26 giugno 2009

Credo che su Sacconi non si sia riflettuto ancora abbastanza, così come credo si sia in qualche modo sottovalutata o travisata la portata “esplosiva” del suo contributo alla liuteria moderna.
Immaginiamo un liutaio che cresciuto alla scuola del grande Fiorini, sviluppi il suo talento in modo così straordinario che già negli anni 10 e 20 del 1900 è in grado di produrre strumenti perfetti ad imitazione degli antichi, tanta era la sua forza creativa nel voler essere in qualche modo vicino ai liutai classici. Immaginiamo che questo stesso liutaio venga improvvisamente chiamato a lavorare in America da un grande e famoso commerciante di strumenti rari e che gli offra il posto di responsabile del laboratorio, il liutaio in questione non ci pensa due volte ed accetta subito: è disposto a tutto pur di poter vivere vicino agli strumenti che da sempre egli venera e ammira dal profondo del cuore.
Violino di Fernando S. Sacconi 1928 (prop. Bissolotti)

Passano gli anni, questo liutaio diventa sempre più famoso, il suo laboratorio è un via vai distrumenti e musicisti leggendari, nel giro di una decina d’anni questo liutaio vede crescere a dismisura il proprio talento e la competenza sugli strumenti ad arco.

Dagli anni ’40 in poi, si può tranquillamente affermare che siano veramente in pochi a rivaleggiare con questo liutaio, in quanto i più famosi commercianti non hanno nessuna competenza in fatto di restauro di strumenti antichi, viceversa anche i liutai più validi non avevano l’opportunità di poter vedere, riparare od esaminare un grande numero di strumenti antichi.

Il liutaio di cui stiamo parlando era l’unico al mondo a possedere entrambe le qualità: conoscenza vastissima degli strumenti classici e smisurata abilità nel lavorare sugli strumenti. Questo liutaio è un romantico sognatore, ogni giorno la sua mente si perde negli acciottolati silenziosi di Cremona, s’incontra con Giuseppe Guarneri del Gesù e gli chiede “ma perchè pur avendo un talento così straordinario, lavoravi così male?”; oppure incontrava Stradivari “Maestro, il giorno in cui riuscirò ad intagliare un riccio con il tuo stile potrò dirmi anch’io un vero liutaio”.

E sognava, questo liutaio, mentre le sue mani correvano sicure su strumenti che valevano milioni di euro, non pensava mai di far danno perchè semplicemente non era contemplato fare male, egli piallava, scolpiva, rasava, pennellava con la stessa facilità ed entusiasmo di un bambino, il male non esisteva nella sua mente.

E’ così negli anni ’60 del 1900 realizzò il sogno di una vita: tornò a Roma, città in cui era nato, ma soprattutto andò a Cremona per imprimervi la sua personalità indelebile.

Egli non vedeva l’ora di riversare i decenni di esperienza che aveva accumulato sulla città che aveva dato i natali a Stradivari, Amati, Guarneri e tanti altri liutai leggendari. Vi era già tornato in passato, era il 1937, l’anno in cui ricorreva il 2° centenario della morte di Stradivari, insieme ad altri colleghi fu uno dei protagonisti della prima grande mostra dedicata agli strumenti stradivariani.

Erano anni difficili quelli, ma non solo per gli eventi politici e bellici, anche la liuteria aveva i suoi bei grattacapi: sorgeva il problema dei falsi e delle false certificazioni. Ma il liutaio romano, naturalizzato americano e con aspirazioni cremonesi, sapeva come evitare le insidie e nonostante avesse la capacità di produrre copie perfette, il pensiero di raggirare il prossimo non lo sfiorò neppure per un attimo. Se sei una persona onesta non puoi cambiare, così come non puoi cambiare il colore del cielo.

Eppure il liutaio conosceva bene la liuteria post settecentesca, sapeva benissimo che nell’800 la tradizione liutaria italiana conobbe un vero e proprio stravolgimento: la scuola cremonese era ormai scomparsa da tempo, la stragrande maggioranza degli strumenti originali aveva preso da tempo la direzione di Francia e Inghilterra, e una Giovine Italia non era in grado di prendersi cura dei propri tesori.

Fu così che la tradizione italiana conobbe l’influsso delle scuole straniere, come quella francese, che introdusse nel nostro paese l’uso della forma esterna. Le vernici già da tempo non erano più quelle di una volta, le vernici a spirito erano sicuramente più facili da comporre e da stendere, tale che ad un certo punto guardandosi indietro ci si accorse che la retta via era smarrita, e allora giù a tentare di ricostruire il segreto della formula di Stradivari!

Il declino della liuteria italiana, che seguì di pari passo le vicende politiche italiane ed europee, conobbe un graduale e progressivo impoverimento al punto che i pochi liutai dell’epoca, erano costretti a lavorare e a vendere i propri strumenti per pochi soldi.

Non è facile produrre strumenti con lo stesso sfarzo degli Amati e di Stradivari, quando una famiglia è costretta ad un regime di pura sopravvivenza, quindi si tentava di risparmiare tempo, materiali e denaro in ogni modo. E uno di questi modi fu proprio quello di adottare le vernici a spirito, sicuramente più veloci da usare e diventate più economiche, grazie alle vie commerciali aperte dai nuovi mercati europei. Così, generazione dopo generazione, i liutai cambiarono radicalmente il loro modo di produrre strumenti, così che spesso fummo costretti ad imparare tradizioni e procedure diverse.

Questo il liutaio romano-americano-cremonese lo sapeva benissimo ed era proprio questo che portava il suo entusiasmo alle stelle: negli anni aveva accumulato un’esperienza tale da poter restituire a Cremona il patrimonio perduto.

Fu così che il liutaio tenne lezioni presso la scuola di liuteria di Cremona, erano gli anni ’60, egli ad un certo punto si rese conto che nonostante Cremona conservasse, seppure in modo trascurato, gli attrezzi di lavoro e le forme originali di Stradivari, in quelle aule si insegnava una liuteria che niente aveva a che fare con la tradizione classica cremonese. E così pure gli strumenti costruiti nella scuola assomigliavano così poco a quelli dei grandi cremonesi!

Pensava di poter dare un contributo fondamentale questo grande liutaio, ma invece si trovò di fronte ad un mondo profondamente mutato che ormai considerava come radici proprie quella tradizione così diversa da quella cremonese, forse sarebbe stata necessaria un’azione “politica” di mediazione tra il passato e il presente, ma per il liutaio sarebbe stato tradire se stesso e la grande tradizione di cui egli era l’innocente depositario.

Nonostante la schiacciante evidenza delle prove documentarie raccolte in una vita di lavoro, degli attrezzi di lavoro stradivariani, un liutaio che ha imparato a costruire strumenti con il metodo della forma esterna ben difficilmente cambierà il proprio metodo di lavoro, soprattutto se su questo metodo ha già costruito da tempo il proprio commercio e la propria fama.

Fu così che il nostro liutaio si trovò isolato con pochi affezionati, e non mancarono nemmeno occasioni in cui gli furono contestate competenza e professionalità.
Mentre egli tentava di restituire a Cremona non solo il patrimonio perduto, ma anche un modo di lavorare aperto alla ricerca, su un altro fronte si resisteva in modo tenace ad ogni cambiamento.

Ma il liutaio romano-americano-cremonese non era tipo da scoraggiarsi facilmente, con la pazienza di Giobbe e con l’aiuto di Francesco Bissolotti, riordinò gli attrezzi di lavoro stradivariani dandogli anche una sistemazione più dignitosa, fece in modo di restituire a Cremona alcuni tra i violini più significativi di Amati, Stradivari e Guarneri del Gesù, che ancora oggi si possono ammirare nel Palazzo Municipale, ed infine fu iniziata la stesura del suo libro “I segreti di Stradivari”.

Questo suo libro ritenuto universalmente un’opera fondamentale, fu anch’esso molto contestato, soprattuto per quello che riguarda il capitolo sulla verniciatura a base di propoli, ma nella buona o cattiva fede non si è tenuto presente che quest’opera è stata concepita nei primi anni ’70 e che riportava il massimo dei progressi fino ad allora raggiunti in materia di vernici.

Infatti il nostro liutaio si era avvalso dell’opera di alcuni studiosi ed appassionati americani, Michelmann e Condax, e che furono studiati in modo accurato molti frammenti provenienti da strumenti originali. La validità de “I segreti di Stradivari” non risiede tanto nelle ricette della vernice o nella preparazione a base di silicato di potassio, ma nell’accuratezza delle osservazioni ivi riportate, che riconducono direttamente e in modo inequivocabile alle vernici antiche.

Correva l’anno 1972, il liutaio pensava già ad una revisione e ad un aggiornamento del suo libro, ma non solo: pensava anche di trasferirsi definitivamente a Cremona e coronare così il sogno di una vita. Ma non fece in tempo a realizzare questi due importantissimi progetti, il 26 Giugno 1973 Simone Fernando Sacconi terminava la sua vita nella casa di Point Lookout.

Claudio Rampini

Nel segno della condivisione: tributo a Simone F. Sacconi

29 maggio 2009
Il 30 Maggio del 1895, nasceva a Roma Simone Fernando Sacconi, il maggior liutaio ed esperto di violini antichi del 1900. Nel 114° anniversario della nascita, voglio ricordarne il valore con un bell’articolo che ho tradotto dall’inglese a firma di Christopher Germain dedicato alla storia della bottega di Rembert Wurlitzer, dove Sacconi ha passato i momenti più importanti della sua vita.
Sacconi è un liutaio che oggi appare ingiustamente dimenticato, a partire dalla sua opera “I segreti di Stradivari” non più pubblicata in italiano, per non parlare delle varie istituzioni liutarie, siano esse scuole, associazioni e fondazioni, dove il nome di Sacconi sembra non suscitare più alcuna emozione. Questo è il nostro modesto tentativo per ridestarne la memoria.

 

Wurlitzer, un nome che evoca un gran numero di ricordi legati alla musica. Quelli che sono vecchi abbastanza possono ricordare l’organo Mighty Wurlitzer, ascoltato nei cinema e nei teatri in tutti gli Stati Uniti durante i primi anni del 20° secolo.

Altri possono ricordare il juke box Wurlitzer, che hanno suonato  le canzonette delle hit parade nei ristoranti e nei bar, durante gli anni ’40, 50, 60 (e anche anni ’70 in Italia. N.d.T.)

Ma ogni violinista, violista o violoncellista che ha più di 50 anni che sente il nome Wurlitzer penserà quasi sicuramente al più grande esperto di violini che l’America abbia prodotto – Rembert Wurlitzer – e agli strumenti storici nel negozio sulla 42° Strada a New York dove ha lavorato dal 1948 fino alla sua morte nel 1963.

In questi brevi 15 anni, Wurlitzer assemblò un team di liutai e restauratori dediti esclusivamente agli strumenti ad arco, di cui egli era un grande appassionato.

Il laboratorio, diretto dal maestro Simone Fernando Sacconi, formò i maggiori nomi della liuteria  moderna  tra cui René Morel, Hans Nebel, Luiz Bellini, Charles Beare, Bill Salchow, e molti altri.

Si stima che durante tale periodo vi sono stati restaurati quasi la metà dei conosciuti 600 violini di Stradivari. (Sacconi, nel suo libro “I segreti di Stradivari”, afferma di aver esaminato e riparato circa 350 strumenti attribuiti ad Antonio Stradivari).

Il negozio di Wurlitzer è stato un crocevia e luogo di incontro per i più grandi musicisti del momento: Heifetz, Piatigorsky, Kreisler, Menuhin, Milstein, Rostropovich, essi lo frequentarono  come clienti del più grande team di esperti di strumento ad arco, restauratori e appassionati che l’America poteva offrire.

La dinastia musicale dei Wurlitzer iniziò nei primi anni del 1700 in Sassonia.
I primi membri impegnati nel commercio furono Hans Andreas, Nicholas, e Hans Adam Wurlitzer, che sono stati elencati nell’albo liutai di violini e liuti  nelle città di Schoeneck e Schillbach (zone di Francoforte, Stoccarda. N.d.T.)
Nel 19 ° secolo, Rudolph Wurlitzer emigrarono negli Stati Uniti, e si stabilirono a Cincinnati, nello stato dell’Ohio.

Nel 1856, si costituì la Rudolph Wurlitzer Co., che inizialmente era impegnata nell’importazione  di parti di strumenti musicali dall’Europa.
Durante la Guerra Civile, Wurlitzer importò corni e altri strumenti da banda.
La compagnia si espanse fino a diventare il più grande rivenditore di strumenti musicali con 32 uffici in tutti gli Stati Uniti.

Una pietra miliare della Rudolph Wurlitzer Co. è stato il dipartimento dedicato agli strumenti ad arco storici.
Rudolph si prefisse di acquisire i migliori strumenti ad arco e archi.
A partire dal 1890, furono effettuati viaggi annuali in Europa, in cui Wurlitzer ebbe modo di acquisire grandi capolavori come il “Betts” di Stradivari e il “Leduc” di Guarneri del Gesu.

Nel 1923 Wurlitzer acquisì gran parte della famosa collezione RD Waddell a Glasgow, e nel 1929 fu acquistata l’intera collezione di Filadelfia del commerciante Rodman Wanamaker.
Molte delle grandi opere cremonesi che ora sono ospitati presso la US Library of Congress e lo Smithsonian Institution sono stati originariamente importati e venduti da Rudolph Wurlitzer.

Alcuni di questi strumenti comprendono le viole “Medici” e “Cassavetti” e i violoncelli “Servais” e “Castelbarco”, così come il violino di Betts 1704, tutti di Stradivari.

Rembert Wurlitzer, nato nel 1904, era destinato a continuare il successo dell’azienda di famiglia oltre la seconda metà del 20 ° secolo.
Fin dalla più tenera età, Rembert, come i suoi predecessori, aveva mostrato passione e attitudine per la liuteria.

Egli inizialmente divenne apprendista di James Reynold Carlisle a Cincinnati, un americano di nascita ed esperto liutaio, il cui lavoro fu in seguito promosso dalla Wurlitzer.
Wurlitzer in seguito fu allievo di Amédée Dieudonné a Mirecourt, in Francia.
Nel 1924, a 20 anni come apprendista nel laboratorio di Dieudonné, costruì un violino etichettato “#4” che è praticamente indistinguibile dal lavoro del suo maestro francese.

Nel 1948 Rembert decise di aprire la propria impresa, distinta da Rudolph Wurlitzer Co., che si concentrerà solo sugli strumenti rari e gli archi.
Questo dette l’autonomia a Rembert di concentrarsi sulla sua vera passione e lo liberò da tutte le complessità delle grandi imprese di famiglia.

La sua azienda, Rembert Wurlitzer Inc., fu ben presto in grado di raccogliere i migliori artigiani, esperti e studiosi che condivisero con lui la conoscenza e l’amore per gli strumenti ad arco.

Nel 1951 il celebre commerciante di strumenti Emil Herrmann decise di chiudere il suo negozio di New York, consentendo a Wurlitzer di aumentare la sua fama mediante l’assunzione del leggendario Simone Sacconi, che di Hermann era il responsabile del laboratorio di manutenzione e restauro.

Sacconi era venerato tra musicisti e colleghi per la sua attenzione al dettaglio e devozione al lavoro.
Secondo il grande restauratore Hans Nebel, che ha lavorato presso la Wurlitzer per 18 anni “Sacconi aveva un occhio, una comprensione per le cose che non fu seconda a nessuno.”

Il braccio destro di Sacconi  fu Dario D’Atilli, anch’egli proveniente dal laboratorio di Herrmann,, anche lui divenne parte del team di Wurlitzer.
Sotto la sua guida tranquilla, senza pretese di leadership, lo staff di Wurlitzer ebbe modo di fiorire ed esprimere il meglio di sé.

Charles Beare, l’eminente esperto di violini inglese, così si espresse nei confronti della tranquilla e disinvolta gestione di Wurlitzer: “Per lui era semplice: non c’erano e non dovevano esserci segreti. La conoscenza è qualcosa che deve essere condivisa e sta ai suoi possessori farne l’uso migliore. Dal suo punto di vista, gli artigiani migliori che desiderava restassero nel suo laboratorio, dovevano essere pagati più di quanto essi potevano pensare di poter essere pagati lavorando in proprio o per un concorrente “.

Sotto la direzione Sacconi, il laboratorio di Wurlitzer fu in grado di attirare i più abili e specializzati restauratori provenienti da tutto il mondo.
Coloro che hanno lavorato sotto Sacconi ebbero un profondo rispetto per il suo lavoro, come pure per la sua personalità.

Il liutaio René Morel, che arrivò a Wurlitzer già in possesso di un’abilità quasi leggendaria, ha recentemente raccontato l’intensità del primo incontro con Sacconi: “Quando vidi l’uomo in camice bianco, lo guardai in viso e subito capii che ero con qualcuno che era un grande artista. Sentii l’emozione agitarmi il petto, capii che egli era il maestro.”

A New York il liutaio Luiz Bellini, Sacconi è stato un grande restauratore che egli ha amato per condividere la sua conoscenza:“Ero in paradiso” ricorda “Sacconi è stato probabilmente la persona migliore da cui imparare perchè egli amava insegnare. Ci ripenso ancora oggi. Quello che ho imparato, sotto la sua supervisione ancora mi aiuta nel mio lavoro di oggi. ”

Il maestro liutaio Vahakn Nigogosian o “Nigo,” così come è conosciuto, percepiva l’atmosfera del laboratorio sotto Sacconi e Wurlitzer come un processo di apprendimento senza fine, in cui ognuno era incoraggiato a studiare e imparare dai grandi capolavori.

Nigo raccontava di come Sacconi aveva sempre buone parole nei confronti di un lavoro ben fatto, per contro usava la critica nel modo più costruttivo.
Sacconi implorava i membri del suo laboratorio “di chiudere tutte le porte”, volendo dire che i grandi restauratori devono anticipare ogni possibile problema prima di mettersi all’opera.

Morel dice che Sacconi “sapeva ottenere il meglio da ogni persona che lavorava sotto di lui. Egli aveva una  grande capacità di spiegare le cose, senza mai alzare la sua voce. Aprì i miei occhi e  cambiò la mia abilità in arte “.

Ma Bellini sottolinea che l’atmosfera nel laboratorio di Wurlitzer non era sempre seria.  “Siamo stati a lavorare di sabato a mezza paga,” dice. “Il sabato Sacconi era molto più rilassato. In uno di questi Sabato, io lavoravo là da circa un anno, Sacconi si avvicinò a me tenendo una viola, dicendo: ‘Guarda qui, Luigi. Guarda questa bellissima Stradivari ‘ “.

Bellini rimase profondamente colpito dalla la bellezza dello strumento. Solo alla fine della giornata Sacconi confessò che si trattava di una copia della “MacDonald” di Stradivari che aveva costruito.

Secondo Beare, Wurlitzer, Sacconi e i loro collaboratori avevano creato una sinergia o “una squadra la cui atmosfera raramente si vedeva al di fuori di un campo sportivo”. Ogni membro della squadra era in possesso delle qualità essenziali per il successo del business.

Wurlitzer possedeva le qualità di un vero esperto violino: una memoria fotografica, una conoscenza enciclopedica di strumenti ad arco e dei liutai che li avevano costruiti, nonché un ineguagliabile passione per il suo lavoro.
Sacconi era ugualmente appassionato al suo lavoro, sempre intento nel perfezionare il suo lavoro di restauratore e le tecniche di conservazione, nel rispetto dell’autore.

Insieme, Wurlitzer e Sacconi hanno lasciato una grande eredità nel mondo del violino. Essi sono stati in grado di creare miglioramenti fondamentali nell’arte della riparazione e del restauro, e anche aumentarono il livello di conoscenza e competenze all’interno di questo delicato settore.

“Siamo stati come una vera famiglia,” Bellini ricorda. “Se avevi bisogno di qualcosa, tutto quello che dovevi fare era chiedere.”
Purtroppo, nel 1963, Rembert Wurlitzer moriva al culmine del suo successo professionale. Aveva 59 anni. Sua moglie, Lee, continuò l’attività per altri dieci anni. Sebbene l’attività ebbe un seguito, le cose non furono più le stesse senza l’autorevole patriarca della famiglia.

Anche la salute di Sacconi iniziò una lenta ma inesorabile discesa, ciò lo costrinse a diradare la sua presenza in laboratorio. Morì nel 1973 all’età di 78 anni.

L’azienda chiuse le porte nel 1974, terminando la più grande dinastia degli strumenti ad arco in America.

Tuttavia l’eredità di Wurlitzer sopravvive. Molti di quei liutai e restauratori che videro nascere la loro carriera di successo da Wurlitzer, hanno a loro volta formato la seconda e la terza generazione di liutai e restauratori americani.
La filosofia di Wurlitzer sulla condivisione delle conoscenze è oggi continuata da altri famosi laboratori.

Così pure lo spirito di consumato talento ed esperienza nel rispetto dei musicisti e dei grandi capolavori sui quali essi suonano.

Nota: Articolo di Cristopher Germain, traduzione di Claudio Rampini
http://www.stringsmagazine.com/article/default.aspx?articleid=21398&page=1