Guido Rimonda, uno Stradivari e l’anticonformismo in musica.

 

Ieri sera presso l’Aula Magna della Sapienza in Roma si è esibito il violinista Guido Rimonda accompagnato dalla “Camerata Ducale”, di cui è anche direttore. In programma musiche di Locatelli, Tartini, Paganini, Serra, Wieniawski, Williams, Ravel, Gluck, un panorama musicale cronologicamente vasto ed impegnativo che ha destato in me subito molta curiosità e aspettativa. Avevo già ascoltato il disco registrato da Rimonda per la Decca, “Le Violon Noir” e mi era piaciuto il suono pulito di questo musicista, ma come sempre l’ascolto dal vivo riserva sempre sorprese, nel bene e nel male.

Dopo un breve brano introduttivo dell’orchestra ecco che alle nostre spalle si ode il flebile suono di un violino, ci voltiamo e vediamo proprio lui, Rimonda che in modo del tutto inusuale ha fatto il suo ingresso procedendo lentamente dalle ultime file in direzione del palcoscenico. Procede con calma, il suono si fa più definito, già noto che è in grado di pervadere tutta la sala, un timbro decisamente caldo, in buona sostanza il classico suono di un violino italiano antico di pregio, ampio e mai aggressivo, udibile anche nei “piano” più sussurrati.

Sorrido all’idea di poter suonare il violino camminando, mi viene in mente “il violinista sul tetto”, cioè a dire che nella tradizione ebraica il suonare il violino mentre ci si muove o si è in un delicato equilibrio fisico (o anche semplicemente esistenziale), è cosa ardua perché il violino lo si suona con l’arco, in grado di registrare ogni minimo tuo sussulto ed ogni tuo sussurro.

Bene, mi dico, ci troviamo di fronte ad un virtuoso, vediamo un po’ fin dove vuole arrivare! e lo dico proprio con un senso di sfida. Come liutaio forse è il caso di aggiungere in un tragico gioco di parole che io sono “disincantato”, e che tutte le storie e leggende diaboliche e di mistero che circondano il violino e i violinisti non mi incantano più, ma non per questo il mio cuore  pur nella ricerca costante di un suono essenziale, si sia inaridito e reso cieco alla poesia.

Ed io sorrido quando Rimonda ci racconta di come Tartini compose il suo “Trillo del Diavolo”, di come Paganini avesse una fama diabolica sia in vita, che dopo morto, il dramma di Laura Lanza, Baronessa di Carini, che dopo essere stata colpita a morte impresse sulle pareti per l’eternità la sua mano insanguinata.

Sorrido e dopo avere ascoltato i suoi racconti, ascolto il suo suono e la sua musica, quella dello Stradivari “Leclair” anno 1721 e di Guido Rimonda, violinista contemporaneo che alcune cronache dipingono alto e pallido, magari un po’ lugubre. In effetti un po’ pallido lo è veramente, ma a me la sua figura non ispira niente di esoterico o di misterioso, vedo invece che suona con cura e disinvoltura, direi che mi comunica generosità e perfino simpatia.

Quello che mi colpisce è la straordinaria ricchezza di colori del suo suono e quello del suo violino, indubbiamente il “Leclair” 1721 riesce veramente a stregarti con un suono morbido e pervasivo, una dinamica indubbiamente poco comune che si ritrova solo nei migliori strumenti classici e meglio conservati. Invece il “Leclair” 1721 ne ha viste di tutte i colori, sul suo corpo le ferite dovute al tempo e agli uomini sono evidenti, eppure la voce è perfetta. E questo è quello che conta.

Tra i brani in programma quello che ho gradito maggiormente è stato “Le Streghe” di Paganini, che fu composto ispirandosi all’opera di Süssmayr  “Il noce di Benevento”, Rimonda affronta con grande disinvoltura le impervie virtù paganiniane, ottimo, definito e ben udibile il pizzicato della mano sinistra. Considerato che il programma di questa sera, oltre ad essere circondato da un’aura “maledetta, affronta un arco cronologico di composizioni di grandissima varietà esecutiva ed interpretativa, e che Rimonda ci offre perfino mettendosi a sedere sugli scalini del palcoscenico, ecco che la mia simpatia nei suoi confronti si trasforma in ammirazione.

Nelle esecuzioni dal vivo non faccio mai troppa attenzione alle inevitabili imprecisioni, ma nel caso di Rimonda non riesco a ricordare nessun momento in cui abbia avuta la benché minima caduta di stile o di intonazione, inoltre affronta un repertorio poco comune, quello che tra 1700 e 1800 noi liutai definiamo “di transizione”, riferendoci al fatto che ormai lasciati definitivamente al passato il Barocco e i suoi fasti, i violini classici affrontano una fase a cui nemmeno il “Leclair” è riuscito a sottrarsi: la montatura “alla moderna”, ossia quell’insieme di modifiche strutturali che hanno reso il violino barocco ciò che noi vediamo e costruiamo oggi.

Eppure anche in quell’epoca di profonde trasformazioni culturali e tecniche, l’influsso del Barocco nelle composizioni degli autori dell’epoca si avverte chiaro, e anche Rimonda che quel periodo sembra conoscerlo molto bene, forse anche per la sua profonda dedizione a Viotti, non tradisce la storia con vibrati veementi e arcate di un virtuosismo a volte selvaggio, che troppo spesso funestano le mie povere orecchie, come accade con altri interpreti, anche di gran blasone, di oggi e di ieri che a volte sembrano poco avvezzi alla realtà del “suono italiano”.

Rimonda e il suo “Leclair” ci restituiscono il valore del sussurro e del silenzio, così che ci si potrebbe chiedere dove il dolore e la sofferenza de “Le Violon Noir”, le inquietudini di Tartini e della Baronessa di Carini dove siano andati a finire,  si può rispondere solo che la musica, espressione artistica della nostra vita umana, racchiudono tutto. Ed è per questo che io stasera mi sento di sorridere al mistero, perché il suono di questo violino è senza ombre, è chiaro e luminoso,  “Le Clair” appunto, e niente ci fa pensare ad un “Violon Noir”.

Qualche parola su violino: il “Leclair”, pur nelle sue meravigliose doti sonore, è indubbiamente un violino che ha sofferto molto, quelle che si ritengono siano le tracce insanguinate dell’abbraccio di Jean Marie Leclair nei suoi ultimi momenti di agonia, sono evidenti. Ignoro al momento quanto sia da attribuire a verità o leggenda, ma è certo che quelle zone più scure sembrano essere state ripulite fin troppo a fondo (senza peraltro esser riusciti nell’intento), e che qualcosa abbia penetrato profondamente le fibre del legno, e che poi ritocchi e forse riverniciatura successive hanno reso ancora più evidenti. Che sia uno Stradivari autentico non è testimoniato solo dalla grandezza del suono, ma anche dalla forma stessa del violino, che in ogni copia non si riesce mai ad avvertire fino in fondo quella purezza di curve originaria, così come il taglio delle “effe” conserva sostanziosi bagliori dell’antica freschezza.

Testo e fotografie di Claudio Rampini