Claudia Fritz e Joseph Curtin ci riprovano (i violini moderni suonano meglio degli Stradivari).

In questo articolo apparso su La Repubblica online dell’8 Maggio 2017, la ricercatrice di Scienze Acustiche di Parigi Claudia Fritz (che è anche flautista) ed il liutaio americano Joseph Curtin hanno riproposto l’esperimento già avvenuto nel 2012 che avrebbe portato all’evidenza per cui i violini di Stradivari non suonerebbero meglio dei violini moderni, contribuendo a loro dire a sfatare un mito duro a morire. Il primo esperimento fu condotto in modo assolutamente irricevibile per una persona che avrebbe le intenzioni di confermare in modo “scientifico” la superiorità di un suono rispetto ad un altro, ossia musicisti bendati fatti suonare all’interno di una stanza d’albergo, laddove le proprietà acustiche, non solo degli Stradivari ma di qualunque strumento, ne uscirebbero seriamente compromesse.

Per cui sembrerebbe non valere più il concetto che l’essenziale non è solo mettere tutti gli strumenti a parità di condizioni, ma che ogni strumento possa avere una resa completamente diversa a seconda del musicista, dell’ambiente, della musica che viene suonata e della montatura adottata (corde, ponticello, cordiera, ecc.).

Ebbene oggi, anno 2017, l’esperimento è stato ripetuto nelle sale da concerto e ancora una volta ne è scaturito un verdetto sfavorevole per gli strumenti antichi. Il che può anche essere possibile, dato che ogni strumento, moderno o antico che sia, possa avere qualità acustiche indiscutibili (a patto che venga suonato bene e in un ambiente favorevole all’ascolto della musica).

Purtroppo la pagina completa dell’articolo pubblicata su PNAS è a pagamento per cui ci dobbiamo limitare a ciò che i giornali e le riviste hanno saputo condensare: i violini antichi suonano peggio dei violini moderni e poco altro, niente è dato di sapere sui metodi di selezione degli strumenti e dei musicisti, delle montature adottate e soprattutto dell’identità degli strumenti che sono stati suonati nelle prove acustiche, tradendo così la regola fondamentale per cui una prova che abbia un minimo valore scientifico dovrebbe possedere come fondamento: la trasparenza.

Va aggiunto che nel tempo, dal 1800 fino ai giorni nostri, sono state condotte molte prove “al buio”, e che spesso hanno dato esito sfavorevole agli strumenti antichi (famoso è l’esperimento del violino costruito da Savart), ma che negli anni hanno visto gli strumenti moderni o di nuova concezione relegati ad un più modesto ruolo di violini di fila o conservati nei musei come curiosità.

Quindi è tutto mito ciò che circola sul suono degli Stradivari? (e i Guarneri, gli Amati, i Bergonzi, ecc ecc, dove li mettiamo?). Per la mia esperienza posso dire con sicurezza che non è tutto mito, e che all’interno di una sala da concerto le differenze sono molto ben percepibili. Inoltre è curioso che da una parte si metta bene in chiaro il nome di Stradivari come confronto, ma dall’altra i violini moderni delle prove rimangano perfettamente nell’anonimato, perlomeno la cui indentità è nota solo a pochi eletti. Forse si teme un ulteriore confronto? ossia che conoscendo il nome dei liutai che hanno costruito quei violini moderni, li si possa usare per prove in cui venga dimostrato il perfetto contrario, ossia che spesso le qualità di un violino moderno, non solo sono inferiori ad un buon violino di Stradivari, ma che il liutaio o i liutai in questione non abbiano il coraggio di metterci la faccia, temendo comunque un confronto che li possa danneggiare nella loro reputazione?

Ma più delle mie parole, può spiegare l’esperienza di Maxim Vengerov, che con modestia e assoluta onestà intellettuale spiega le sue ragioni in un messaggio di replica su slippedisk.com.

Aggiornamento:

Test di questo genere nascono con il peccato originale, per non dire errore fondamentale, di intendere la voce di un violino come quella di un cantante, per cui uno Stradivari potrebbe e dovrebbe essere riconoscibile alla stregua della voce di Pavarotti e Domingo. Ovviamente non è così perchè la voce del violino è altra cosa dalla voce umana e non è così riconoscibile, come peraltro dimostrato da un test condotto da liutai e musicisti di provata competenza, tra cui Isaac Stern e Charles Beare, in cui non poche furono le sorprese ad ascoltare gli strumenti a distanza, in cui i giudizi sul suono furono così contraddittori che fu inevitali considerarli non attendibili. Lo stesso Stern affermò che avrebbe potuto riconoscere ad occhi chiusi (ma con orecchie aperte), qualsiasi strumento purchè potesse suonarlo per qualche secondo, ma alla distanza cogliere le differenze tra violini di altissima qualità diventa cosa praticamente impossibile.

Questo significa che certamente si possono valutare le qualità timbriche di qualsiasi strumento e la portata del suono, sia suonandoli in prima persona che alla distanza, ma per la mia esperien za i violini antichi hanno sempre dimostrato qualità superiori rispetto a violini moderni (inclusi i miei), tranne quei casi in cui i violini antichi fossero montati male o avessero bisogno di interventi di revisione o restauro. Ovviamente dobbiamo anche considerare strumenti che a dispetto della loro illustre paternità, forse anche a causa di interventi di restauro maldestri, non sono in grado di emettere suoni di qualità. O forse dobbiamo intendere che oggi, anno 2017, non vi siano più liutai come Sacconi o Weisshaar non siano più capaci di fare montature decenti?

Qui la discussione nel nostro forum.

La costruzione dell’archetto secondo William Watson

William Watson ha lavorato per la rinomata ditta W.E. Hill & Sons dal 1945 al 1962, in questo video di dieci minuti illustra i passaggi della costruzione di un arco dall’inizio alla fine.
Watson è stato l’ultimo allievo di William Retford, e ha continuato a costruire archi dove aver lasciato la Hill, nel tempo si è costruita una solida reputazione nell’ambito della tradizione archettaia inglese (e non solo). I suoi archi costruiti per Hill sono stampigliati con il numero 7.

Notizia ripresa da “The Strad” su Facebook

 

Stradivari del 1734 rubato torna sul palcoscenico.

Dopo un meticoloso lavoro di restauro che è durato più di un anno, uno violino di Antonio Stradivari del 1734, rubato al violinista Roman Totenberg, può finalmente tornare sul palcoscenico. Una ex allieva di Totenberg (Mira Wang, nel video), suonerà lo strumento in un concerto privato a New York.  (Fonte: Associated Press )

La scomparsa del M° Andrea Tacchi

05 ottobre 2016

Il M° Andrea Tacchi non è più tra noi, lo storico primo violino dell’Orchestra Regionale Toscana è scomparso lo scorso 26 Settembre lasciando un senso generale di sgomento e incredulità, poiché mai si sarebbe immaginato vedere interrotta così presto una carriera luminosa e densa come la sua. Di Andrea Tacchi si ricorda volentieri il buon carattere e la sua modestia, così che la sua sconfinata bravura ed infinita resistenza nell’affrontare responsabilità e carichi di lavoro faticosissimi, impensabili per una persona normale, apparivano quasi scontati nella loro straordinaria quotidianità.

Iniziai a frequentare l’ORT nel 1992 grazie al violista Dimitri Mattu, che conobbi a sua volta presso la Scuola di Musica di Fiesole, dove egli insegnava e dove mi recavo regolarmente per conoscere tanti grandi musicisti e i loro strumenti. In modo per me inaspettato il M° Mattu mi propose la costruzione di una viola piccola per un suo allievo e quando fu finita, dopo qualche mese, egli ne rimase favorevolmente colpito.

Quella fu la mia prima viola in assoluto e fui felice della buona riuscita, quindi incontrare Riccardo Masi (prima viola) e poi Andrea Tacchi fu praticamente tutt’uno. Allora l’ORT aveva sede nella chiesa di S. Stefano al Ponte, così chiamata data la sua vicinanza all’iconico Ponte Vecchio, nel cuore della Firenze rinascimentale, laddove le città italiane assumono parvenza di gioiello e offrono protezione ed intimità a chi le frequenta.
Fu un incontro importantissimo, perché aldilà dei miei strumenti da far valutare ai musicisti, mi si presentava l’occasione di poter accedere in modo discreto e senza difficoltà nel variegato e complesso mondo di una realtà orchestrale e di entrare in contatto con i migliori solisti del mondo e i loro grandi strumenti.

Questo ha significato per me un percorso di formazione e maturazione del mio gusto musicale e della percezione del suono, fino ad allora infatti non avevo bene recepito la dimensione degli “armonici” e di quello che un musicista di provata esperienza riesce a sentire e a cavare dal proprio strumento.

Gli equilibri tra le varie sezioni dell’orchestra, tra i violini primi e i violini secondi, le viole, i violoncelli, fu così che conobbi anche Horvath, Ballini, Bacchelli. Ma la cosa più bella era che potevo ascoltarli in prova, e tra una pausa e l’altra scambiare con loro impressioni, imparare cose nuove, avere la possibilità di vedere strumenti importanti.

E fu così che finalmente mi trovai a tu per tu con il Gragnani del M° Tacchi, il quale me lo porse con la sua consueta simpatia e disponibilità, e che al tempo stesso poneva seri dubbi sulle mie capacità di riuscire mai un giorno a realizzare un violino così bello e sonoro come quello.

Dall’antico liutaio livornese Antonio Gragnani mi sarei aspettato un’opera al limite della rusticità, con uno stile propriamente toscano, ma già il constatare la cura che fu posta nella realizzazione delle punte dei filetti, la cura nelle bombature, l’armonia della forma, mi indusse a pensare che egli avesse avuto qualche rapporto con la scuola cremonese, o che perlomeno avesse avuto opportunità di vedere un buon numero di strumenti classici cremonesi.

Tacchi sorrise compiaciuto, amava molto quel violino. E faceva bene, perché raramente ho avuto opportunità di vedere un’armonia così completa tra il musicista e il suo strumento, un insieme unico in grado di poter affrontare con sicurezza qualsiasi repertorio. All’epoca era direttore stabile Lu Ja con il quale Tacchi mi è sembrato avere sempre un grande affiatamento, così non mi è parso mostrare nessuna esitazione in altri ambiti e con altri direttori, da Berio ad Alan Curtis, Tacchi riusciva sempre a dare il meglio e a non fartelo mai pesare.

Quello che non finiva mai di stupirmi, sia in prova che in sede di concerto, era il suono di Tacchi, che riusciva sempre ad emergere senza tuttavia essere aggressivo o sgradevole. Ingenuamente ero portato a pensare che il violino di Tacchi fosse sempre un gradino sopra gli altri, invece quello era il “suo” suono, che difatti in breve tempo sarei stato in grado di riconoscere tra mille altri. Lo riconoscevo in un concerto di musica da camera in una bellissima sala medievale di un antico palazzo di Pistoia, oppure in duo, suonando il concerto doppio per violino e orchestra di Bach insieme allo Stradivari di Boris Belkin, ma anche seppellito in mezzo all’orchestra in fondo alla chiesa di S. Stefano al Ponte, quando suonarono il concerto Op. 61 di Beethoven, solista Pierre Amoyal.

E poi ancora con Gidon Kremer ai Quattro Mori di Livorno, con Viktoria Mullova al Verdi di Pisa, Yuri Bashmet, e tanti, tanti altri ancora, la cui musica non si è mai persa nel vento. Poi venne la notte dell’attentato in via dei Georgofili, della cui esplosione risentì anche la chiesa di S. Stefano al Ponte, che fu dichiarata inagibile, quindi l’ORT fu spostata momentaneamente al teatro Verdi. Un momento durato più di vent’anni, visto che oggi la sede dell’ORT è proprio lì, ma il mio ricordo resta indelebilmente legato all’antica chiesa, e non potrei mai pensarla diversamente, perché proprio lì assistetti ad un concerto in cui vidi e udii tra gli altri, una delle mie viole, era una sinfonia di Haydn.

E quella stessa viola finì proprio nelle mani di Tacchi, dopo che Mattu decise di acquisire un nuovo strumento costruito da Francesco Bissolotti. Mi stupisco ancora oggi di come quella mia viola imperfetta (la mia seconda in assoluto), sia finita in mani tanto stimate, e che Tacchi dette in prestito a Beate Springorum per il completamento del suo diploma in viola, qualche anno prima del suo trasferimento presso la Filarmonica di Monaco. Contrariamente a quanto accaduto con Riccardo Masi, cui mi lega un’amicizia ventennale, con Andrea Tacchi non ho mai avuto una confidenza stretta, e se ricordo bene, in tutti gli anni che ho frequentato l’orchestra, sia in prova che in concerto, non gli ho mai fatto provare uno dei miei violini.

A dire il vero non mi è mai nemmeno venuta la fantasia di fargliene provare uno, so bene che avrei trovato benevola accoglienza da parte sua, ma una sorta di pudore misto a rispetto mi ha sempre tenuto lontano da questo proposito, perché per me lui rappresentava la musica che amo e niente altro. E la musica non è solo quella prodotta dagli strumenti, ma è quella che ti porti dentro e che riconosci negli altri.

Claudio Rampini
Tivoli 5 ottobre 2016

Una giornata con il Quartetto Guadagnini

 

23 maggio 2015

Era da tempo che cercavo la giusta occasione per un incontro con il Quartetto Guadagnini e la loro musica. Non uno dei concerti alla cui straordinaria qualità questi ragazzi ci hanno abituati, ma una di quelle giornate cosiddette “normali”, fuori dai teatri e dal pubblico, in cui nel loro privato i musicisti costruiscono e perfezionano il loro repertorio. L’occasione si è presentata quando Fabrizio Zoffoli, primo violino del quartetto, mi ha riferito di un prossimo concerto (svoltosi lo scorso 8 Maggio 2016 n.d.r.), presso il Museo del Violino a Cremona, a cui per l’evento è stato affidato il bellissimo quartetto di strumenti costruiti da Marino Capicchioni nel 1937, creato appositamente per il bicentenario della morte di Stradivari e con cui il liutaio riminese vinse un meritato premio. Quindi un’occasione da non mancare per il liutaio e lo spassionato amante della musica, anche se con il grave imbarazzo da parte mia di concedere la stessa attenzione all’uno o all’altro aspetto. E’ da premettere che il Quartetto Guadagnini è stato già oggetto della nostra attenzione sul Portale del Violino, una specie di intervista al “buio” svoltasi al telefono qualche anno fa, senza che avessi avuto prima opportunità di ascoltarli dal vivo, eccettuato qualche breve video reperibile in rete.


Tuttavia l’esperienza di quell’incontro è piaciuta ad entrambe, e ci ripromettemmo di trovarci di persona, senza limiti di tempo e di disponibilità da parte nostra. Come liutaio mi ritengo prima di tutto un cacciatore di suoni, quindi approfondire le esperienze di percezione è un compito quotidiano, al tempo stesso la musica prodotta dagli strumenti e dai musicisti e seguirne l’evoluzione, quando possibile, è un completamento dell’esperienza stessa.

Cioè a dire che ancora prima di incontrare il Quartetto Guadagnini, qualche anno prima intervistai Cristiano Gualco, primo violino del Quartetto di Cremona, che ebbi occasione di ascoltare dal vivo in più occasioni. E prima di loro le mie esperienze di ascolto del Quartetto Italiano e gli incontri con Piero Farulli alla Scuola di Musica di Fiesole, dove ebbi occasione di ascoltare tanti musicisti di grande fama e i loro meravigliosi strumenti.

Quindi il Quartetto Guadagnini nasce dagli insegnamenti del Quartetto di Cremona, che a sua volta ha fatto propria la lezione del Quartetto Italiano, ossia una tradizione di suono e di musica sicuramente di alto livello, che i successi che continuano a mietere dovunque sembrano aver consacrato. Ma sarebbe sbagliato pretendere di ascoltare nelle note prodotte dal Quartetto Guadagnini o dal Quartetto di Cremona le note inconfondibili del Quartetto Italiano, perchè se da un lato possiamo dire che in Italia abbiamo senza ombra di dubbio una grande scuola di quartetto, dall’altra ci rallegriamo nel constatare che nel rispetto del repertorio e della tradizione, questi giovani musicisti godano di un’autonomia creativa che li libera da qualsiasi forma di suono riprodotto in modo meccanico, pur nella perfezione tecnica, come purtroppo accade spesso di ascoltare in questi ultimi anni.

Difatti già subito al mio arrivo l’atmosfera è piuttosto tranquilla e rilassata, cosa niente affatto scontata, tenendo conto che il sottoscritto giunge da intruso a curiosare strumenti e musicisti intenti in una giornata di prove prima di un concerto importante che si sarebbe tenuto solo due giorni dopo, per giunta con strumenti che non erano quelli da loro abitualmente suonati. Due parole sul quartetto di Marino Capicchioni: come è logico aspettarsi gli strumenti sono in perfette condizioni, praticamente poco o niente suonati, la mano del liutaio riminese (Capicchioni è nato a San Marino, ma per un mio habitus mentale continuo a ritenerlo appartenente alla città di Rimini), appare in tutto il suo splendido e vigoroso stile. Capicchioni in questo quartetto ha perseguito linee che potremmo definire stradivariane, sapendo al tempo stesso distanziarsi dal maestro cremonese e fondendo mirabilmente criteri personali. Anche in questo caso lo spirito nazionale italiano sembra trionfare in autonomia nella tradizione, così che nei due violini, ma anche nella viola e nel violoncello, vediamo bombature generose e tese sulle sgusce, quasi squadrate nella zona del ponticello.

Già a guardarli questi strumenti suggeriscono l’idea di un suono ampio e generoso, così pure la vernice, di un colore marrone con una vena molto discreta di rosso, evidenzia le figure dell’acero e dell’abete senza troppi effetti speciali, in un rigore semplice quanto suggestivo. Una lezione che troviamo spesso nei liutai del 1900, che a mio parere dovremmo tenere sempre presente nella produzione degli strumenti di oggi.

Così pure i ricci di tutti questi strumenti appaiono inconfondibilmente della mano di Capicchioni, in uno stile splendidamente omogeneo, con un “occhio” di dimensioni generose che chiude le volute in modo deciso e spontaneo, senza nulla concedere al superfluo, ma soprattutto senza scimmiottare i maestri classici.

Direi che Capicchioni, assieme ad altri celebrati liutai del 1900, sembra essere consapevole di appartenere alla sua epoca, e ne è padrone senza ombra di pentimento.
Ma le osservazioni sugli strumenti lasciano ben presto lo spazio alle note del “Quartettsatz” di Schubert e la stanza si riempie meravigliosamente di note, che pur familiari, sembra di ascoltare sempre per la prima volta.


Il coordinamento tra i musicisti mi sembra veramente buono e quelle che percepisco sono note “mature”, frutto sicuramente di un lungo lavoro di studio e di una discussione che è, e deve restare aperta. Le interruzioni sono frequenti, come del resto è naturale che sia in sede di prova, si cerca sempre di perfezionare, limare, impastare il suono al meglio che si è capaci di fare.
Non c’è una predominanza di un componente del quartetto rispetto agli altri, sia Fabrizio, che Giacomo (secondo violino), Matteo (viola) ed Alessandra (violoncello), danno il loro contributo di riflessione e di suono in modo determinato e pacato.

Fabrizio, che è il primo violino, ascolta attentamente e mi sorprende che non sia quello che più si impone rispetto agli altri, bensì sembra possedere una buona qualità di “ascolto attivo”, cosa che mi sorprende piacevolmente e mi fa sorridere, perchè forse sono male abituato ad immagini mentali di primi violini autoritari che impongono una direzione.

Personalmente non ho mai dato troppa importanza alla precisione dell’intonazione, specialmente nelle esecuzioni dal vivo, ritengo che l’interpretazione valga su tutto, anche in quei casi imperfetti di strumenti trascurati o montati male, o di musicisti che hanno studiato poco o male, perchè se l’interpretazione è per me giusta, l’esecuzione mi risulta comunque gradevole.
Ciò non toglie che nei passaggi di forza e nei complicati fraseggi di Schubert quando le dita dei musicisti passano alle posizioni alte sui registri acuti, io non mi aspetti qualche sbavatura, o qualche ritardo o anticipo rispetto agli altri strumenti.
Invece in questa occasione, musicisti che per ragioni anagrafiche ti aspetteresti più imperfetti, dimostrano invece ottima capacità nel saper padroneggiare ogni criticità, un po’ come quando vedi il funambolo che facendo acrobazie a trenta metri di altezza senza rete, inconsciamente ti aspetti che cada. E qui invece non cade nessuno, quasi una delusione. Ascoltandoli ad appena poco più di qualche metro di distanza, la musica riempie la stanza in modo tale che è impossibile per me non farmi rapire, ed ascolto in silenzio, deliziato, osservando l’ondeggiare del grano verde fuori della finestra, nel campo oltre la strada.

Il tempo passa veloce e arriviamo all’ora di pranzo, vengo amichevolmente invitato a tavola, e senza interruzione tra uno spaghetto e l’altro, parliamo di musica e di strumenti. Mi produco perfino nel racconto di Athanasius Kircher e sulle recenti scoperte alchemiche e simboliche che tanto hanno governato le leggi dell’arte e quindi anche quelle della liuteria.

Non mi aspetto di essere compreso, anche perchè fresco di studi e quindi ben lontano dalla sintesi, invece non solo non mi prendono per pazzo, ma il discorso si approfondisce e si sviluppa senza incertezze o imbarazzi. In buona sostanza abbiamo formato un quintetto.
Ne approfitto anche per scattare qualche foto al meraviglioso violino Pressenda suonato da Fabrizio, mi avevano parlato molto bene della vernice di questi strumenti, e in effetti è difficile trovare qualche cosa che non vada in una luminosa e trasparentissima vernice di un colore rosso molto caldo, laddove il legno sottostante sembra vibrare di vita propria in un tripudio di luce dorata.


Il tempo scorre e corre senza che me ne accorga, dopo la pausa ancora prove, è la volta del “Quartetto Americano” di Dvorak, una scelta per me particolarmente felice perchè ho riscoperto questa bellissima opera in tempi recenti così come si incontra un vecchio amico e si scorgono in lui nuove qualità che te lo rendono più prezioso.

Nelle orecchie ho le note dell’Emerson Quartet e questa non è quasi mai una buona cosa perchè una registrazione è per forza di cose sempre più “pulita” rispetto ad un’esecuzione dal vivo, ma è anche vero che il fronte sonoro di una “imperfetta” esecuzione dal vivo non ha eguali, ed è per questo che io preferisco di gran lunga un quartetto stonato che suona dal vivo, alla più perfetta delle registrazioni del miglior quartetto del mondo.


Questo l’ho capito anche ascoltando di persona le varie opere di Bartok, Berg, Schoenberg, laddove il sapore a volte aspro degli archi ti restituisce tutta la loro dimensione metafisica, che sulle registrazioni si fa sempre fatica a percepire.
Ma sto divagando un po’ troppo, e tutto per dire, in poche parole, che sono partito all’ascolto piuttosto prevenuto, anche se molto fiducioso e curioso per l’interpretazione che il Quartetto Guadagnini saprà dare.

Partono direttamente con il secondo movimento ed è subito un colpo al cuore: tutta la dolce e struggente malinconia emerge subito prepotente dal primo violino per essere poi ripresa dal violoncello. Alessandra dice di non trovarsi in condizioni ideali con il violoncello, lo strumento avrebbe bisogno di essere “svegliato” e non restituisce tutti quegli armonici che sarebbe in grado di dare con un esercizio continuo.
Meno male, penso io, figuriamoci cosa avrei potuto ascoltare se avessero suonato con i loro strumenti!

Poi si ritorna al primo movimento con l’apertura della viola di Matteo, solo un breve ripasso per ribadire le intese sui tempi, ma mi è parso di non capire bene. E allora oso ciò che non ho mai osato in vita mia: chiedo di ripetere. Forse in altre occasioni sarei stato scacciato in malo modo o perlomeno avrei creato qualche imbarazzo, invece la mia osservazione viene colta senza colpo ferire e il brano viene ripetuto, così che Matteo esprime tutto il suo notevole potenziale sulla formidabile viola di Capicchioni. Altro colpo al cuore. Chi conosce il Quartetto Americano di Dvorak sa bene come quelle note apparentemente facili di apertura della viola al primo movimento costituiscano una vera e propria ipoteca che condizionerà tutto il resto dell’esecuzione, e sono contento di aver potuto ascoltare il brano eseguito su una viola così bella e importante, forse una delle migliori che abbia mai ascoltato.

Così pure il violino di Giacomo, gemello identico a quello suonato da Fabrizio, crea un’uniformità di suono che forse non è esattamente corrispondente al ruolo del secondo violino, questo è sempre un rischio che gli strumenti di un quartetto costruito da uno stesso autore devono affrontare, ma Giacomo sembra fare di necessità virtù e riesce ad imporsi.
Casomai non si fosse capito abbastanza, se un musicista ha qualcosa da dire lo dirà comunque, e questa è per me una interpretazione in positivo della legge di Murphy.
Le note continuano a scorrere e non mi rendo conto che la luce del sole proiettata dalla finestra si allunga quasi a vista d’occhio, trascorrono altre due ore veloci e leggere fino al momento del congedo che mi riporterà sui monti dell’appennino abruzzese in direzione Roma.

Per me è stata un’esperienza bella, profonda e memorabile, sembra che il Quartetto Guadagnini abbia ben tollerato la presenza dell’intruso, tanto che ci ripromettiamo di incontrarci di nuovo, sempre lì e allo stesso modo, durante le prove, al cuore della musica e degli strumenti.

Nota: Testo e fotografie di Claudio Rampini