Quel pomeriggio di una calda estate assieme al Sacconi Quartet.

Cosa c’è di più bello di un quartetto di Beethoven? la risposta non può che essere una sola: un quartetto suonato bene.

Questa non è semplice retorica, perché se un quartetto di Beethoven è ben suonato, e sappiamo molto bene quanto sia difficile eseguire bene uno qualsiasi dei brani di musica da camera del grande compositore tedesco, e che ad oggi quelle del Quartetto Italiano costituiscano ancora esecuzioni di riferimento, è tutto dire.

Le ragioni sono molteplici e sono quasi tutte legate alla complessità del pensiero musicale di Beethoven, la cui apparente semplicità dei temi non lascia scampo al malcapitato musicista che si lasci incantare dalle apparenze, magari dando un risalto eccessivo alle seduzioni barocche o al rigore tragicamente anticipatorio del repertorio cameristico novecentesco.

Insomma, ogni frase di uno qualsiasi dei quartetti di Beethoven, ed in specie gli ultimi cinque della sua produzione creativa, non lascia adito a nessun tipo di superficialità, ma questo non significa che il musicista non debba necessariamente eseguire il tutto con immediatezza e semplicità.

In buona sostanza queste sono state le impressioni di ascolto che ho ricavato il 5 Luglio nell’assistere alle prove prima, e al concerto dopo, dell’ensemble inglese Sacconi Quartet, che a mio modesto parere hanno dato una splendida prova nell’approcciare il quartetto n.14 op. 131 di Beethoven nella bella cornice costituita dalla limonaia di Villa Valvitiano (PG), nel contesto del Trasimeno Festival 2022.

Il motivo che ha spinto me e la collega liutaia Wanna Zambelli ad avvicinare il Quartetto Sacconi risiede principalmente nel fatto che il gruppo suona con ben tre strumenti costruiti da Simone F. Sacconi, rispettivamente due violini del 1927 e del 1932, e una viola del 1934, senza dimenticare un bellissimo violoncello di Nicolò Gagliano del 1781.

In vista del 50° anniversario della morte di Sacconi che cadrà il prossimo 2023, non ci sarebbe modo migliore per celebrare l’evento se non quello di di ascoltare in concerto i suoi meravigliosi strumenti, e di poterlo fare invitando il Sacconi Quartet a Cremona, città amatissima da Sacconi, nella quale ha formato liutai importanti tra i quali Francesco Bissolotti e Wanna Zambelli.

L’atmosfera informale della prova mi ha permesso di apprezzare fino in fondo le qualità interpretative del Sacconi Quartet, che ha rivelato fin da subito una grande padronanza del repertorio, che nella fattispecie oltre al già citato quartetto op. 131 di Beethoven, hanno eseguito anche “On the street and in the sky” (prima esecuzione in Italia), una composizione che l’inglese Jonathan Dove ha scritto appositamente per il Sacconi Quartet.

La viola Sacconi suonata da Ben Ashwell ha attratto subito la mia attenzione, non solo per la sua indubbia e ineludibile bellezza, ma anche per le sue ragguardevoli dimensioni, si tratta infatti di una viola tenore la cui lunghezza della cassa armonica si avvicina ai 50cm, e considerato che Ben Ashwell non sia un gigante, ma un uomo dalla figura esile ed elegante, e di altezza normale, qualche dubbio sulla suonabilità di uno strumento così particolare mi è venuto. Ma fin dalle prime note ho notato una grande libertà e disinvoltura, tanto che uno strumento così grande, con il passare dei minuti, ha finito perfino per sembrarmi di dimensioni normali.

Come dicevo in apertura, per me una delle qualità fondamentali per eseguire in modo ottimale uno degli ultimi quartetti di Beethoven , è di farlo con immediatezza e semplicità, il che non deve essere inteso nell’accezione di superficialità e banalità, per questo motivo ho apprezzato molto il Sacconi Quartet, che fin da subito riescono a coinvolgerti in uno spettro sonoro davvero molto ampio, e che riescono a farlo senza retorica, ma con semplicità, appunto.

Perché uno qualsiasi degli ultimi quartetti di Beethoven è animato da una tensione drammatica quasi fuori dall’umano, e la tentazione potrebbe essere quella di esaltare questo aspetto: niente di più sbagliato. Basta Beethoven per questo, non c’è niente altro da aggiungere oltre a ciò che Beethoven ha scritto.

Ben Ashwell e Cara Berridge

Il Sacconi Quartet ha eseguito l’op. 131 a memoria, cioè a dire senza l’ausilio dello spartito, cosa che potrebbe sembrare un particolare di secondaria importanza, ma che Elisa Pegreffi ebbe occasione di rimarcare in una sua memorabile intervista sul Quartetto Italiano, per cui il suonare a memoria e farlo in un contesto cameristico, fa davvero una grande differenza, per cui musicisti e pubblico hanno la possibilità concreta di farsi una cosa sola di fronte al pensiero musicale.

In conclusione, mi è impossibile non spendere ancora qualche parola sugli strumenti di Sacconi: io credo che con questo incontro con il Sacconi Quartet, viene a cadere definitivamente uno dei pregiudizi più duri a morire che riguardano gli strumenti ad arco e che vede contrapposti su due fronti strumenti antichi e moderni: se gli strumenti, come quelli di Sacconi, sono ben costruiti e sono in mano ai musicisti giusti, questa differenza non ha nessun motivo di esistere. Ho ascoltato grande musica eseguita in modo splendido, non mi è venuto di pensare neanche per un attimo agli strumenti, cioè a dire che gli strumenti sono buoni quando smetti di pensarci.

Testo e foto di Claudio Rampini

Da Kircher a Monteverdi, una storia di violini in chiave alchemica.

Fin dal suo primo comparire il violino non ha mai mancato di far parlare di sé, infatti su di esso sono stati scritti oceani di inchiostro, sia in termini di note musicali, che di parole atte a spiegare il suo funzionamento, il modo di suonarlo e di costruirlo. Semplicemente il violino segna in modo irreversibile un nuovo modo di fare musica, costituendo uno dei caposaldi del patrimonio culturale occidentale.

Di questi oceani di inchiostro, una buona parte è stata usata per descrivere le miracolose proprietà delle vernici antiche, che aldilà di una “impossibile” reale comprensione ne consentisse una continuità nella tradizione, non ha mai mancato di incantare liutai, musicisti ed esperti di tutte le epoche, cioè a dire che sulla vernice classica cremonese si è costruito un vero e proprio mito.

Ma è proprio vero ciò che si dice intorno alle vernici antiche? La risposta può essere positiva e negativa al tempo stesso: si guardi uno strumento ben conservato degli Amati o di Stradivari, questi strumenti emanano ancora oggi una luce che non è solo il riflesso della suggestione della nostra immaginazione eccitata dal trovarsi di fronte ad un meraviglioso violino antico, è che proprio quei legni sono in grado di emanare ancora oggi una luce particolare che nessuna vernice moderna ad oggi è in grado di uguagliare, perché parliamo di un trattamento del legno e di una vernice vera e propria, che in concorso generano rilessi e dicroismi del tutto particolari.

Il fondo del violino “Carlo IX” di Andrea Amati – Museo del Violino – Cremona.

A complicare un quadro già di per sé molto complicato, si ricordino sempre gli oceani di inchiostro summenzionati che inutilmente o quasi hanno tentato di svelare il “segreto” degli antichi liutai cremonesi, è stato il verificarsi di una tradizione che si è interrotta di fatto dopo la morte di Giuseppe Bartolomeo Guarneri detto “del Gesù”, e che nell’aspetto della vernice antica non ha dato altre prove di esistenza dopo G.B. Guadagnini (e non tutti i suoi strumenti recano la vernice “all’antica”).

Quindi, se da una parte è rimasto un grosso punto interrogativo sulla formulazione e i procedimenti delle vernici antiche, dall’altra ancora oggi non finiamo di ammirarne la bellezza, non esclusi nemmeno quegli strumenti cremonesi antichi che di vernice originale ne hanno pochissima, che spesso sono ricoperti da strati protettivi a base di gommalacca, ma il cui legno appare immutabilmente preparato affinché la luce vi penetri in profondità rivelandone tutta la tridimensionale bellezza.

Si è pensato spesso che il legno venisse trattato in modo particolare, oppure che tanta bellezza fosse il risultato derivato dalla naturale ossidazione, ma di fatto gli strumenti costruiti dalla seconda metà del 1700 fino ai giorni nostri, mostrano apparenze e luci diverse dagli strumenti costruiti nelle epoche precedenti.

Molti liutai di ieri e di oggi sono andati alla ricerca di un mitico “fondo dorato”, di cui ho spiegato i principi nel mio articolo “Antonio Stradivari, Benvenuto Cellini e i segreti della luce” (C. Rampini 1996), che di fatto rende la dinamica della luce delle vernici antiche simili a quella con cui venivano trattati i gioielli dell’arte orafa tra Rinascimento e Barocco, senza per questo giungere a qualcosa di lontanamente paragonabile ai capolavori antichi della liuteria.
Va comunque detto che ogni epoca ha prodotto i propri capolavori, ed anche in campo liutario non possono essere trascurati pregiati strumenti tra 1800 e 1900 che comunque condividono onorevolmente la gloria del violino, ma di fatto sono strumenti che per luce e stile sono molto diversi da quelli antichi della classicità cremonese.

A onor del vero anche oggi che la composizione della vernice antica cremonese non è più un mistero, poiché ripetute analisi chimico-fisiche e ricerche storiche e documentali (si legga il mio articolo “Riflessioni su una frase di Antonio Stradivari – da una lettera del 13 Agosto 1708 – C. Rampini 1995), ci hanno confermato della presenza di vernici di natura oleoresinosa, ancora gravi interrogativi rimangono sul suo modo di colorarla e di applicarla, e ancora più grande è il “mistero” che riguarda la preparazione del legno affinché ne venga resa reale la mitologia del famoso “fondo dorato”.

Fondo trattato di un violino di Claudio Rampini 2017

I modi di trattare il legno pure anche strettamente legati alla nostra tradizione storico-artistica, sono pressoché infiniti, ed anche di fronte a risultati esteticamente convincenti, non abbiamo al momento prove evidenti di essere giunti a qualcosa di paragonabile ai legni degli strumenti antichi.

Nota bene, qui parliamo di vernici e preparazioni del legno, trascuriamo per amore di concisione e brevità il loro ruolo acustico, perché è essenziale che il “problema vernice” vada scomposto nelle sue parti affinché siano oggetto di studio serio ed attendibile. Va da sé che le positive influenze sul suono delle vernici oleoresinose realizzate secondo ricette e metodi antichi (la più classica e comune: colofonia cotta con sali metallici ed unita ad olio di lino nella proporzione consueta di 1:1), siano accadute in modo quasi casuale, poiché la loro natura leggera ed elastica, unitamente a strati insolitamente sottili (almeno rispetto alle moderne vernici poliresinose a base alcolica), hanno indubbi effetti positivi sul suono di un buono e ben costruito strumento ad arco.

Il violino e la sua nobile famiglia

Vi presento “Il violino e la sua nobile famiglia”, un vero e proprio tributo d’amore verso il violino e gli altri strumenti della sua grande famiglia (viola, violoncello e contrabbasso): si tratta di un libro che nasce da un manoscritto inedito di uno dei più importanti musicologi del secondo Novecento, Giorgio Graziosi, rivisto e aggiornato dal figlio Stefano.

Il taglio non è specialistico: viene ripercorsa a grandi linee la storia del violino con costanti riferimenti all’arte e alla letteratura, e con digressioni e “spigolature” su vicende di liutai, violini e violinisti (Perché Bottesini metteva ogni mattina nel proprio letto il suo contrabbasso? Cosa ci facevano Rossini e Paganini in via del Corso a Roma mascherati da donne? Cosa hanno in comune Paganini e Jimi Hendrix?), «…la cui declinazione si pone sul crinale sempre fluido del confine tra letteratura e leggenda. Un aspetto che, nel parlare di uno strumento come il violino, finisce per essere sempre centrale, soprattutto quando – come nello scritto di Graziosi – si tende a privilegiare l’andamento poetico della narrazione…». (dalla prefazione di Luca Aversano, professore di Musicologia e Storia della Musica presso l’Università RomaTre). «Il violino è probabilmente il più “umano” degli strumenti musicali, quello capace di riprodurre meglio le varie tonalità e sfumature della voce umana. Ma al tempo stesso è anche il più “divino”, quello in grado di produrre suoni che possono innalzare la sensibilità dell’ascoltatore fino alle vette più sublimi dell’apollineo, o sprofondarlo negli abissi del dionisiaco.»

Completano il volume una discografia essenziale e la postfazione di Moni Ovadia “Il violino e l’ebreo”.

Giorgio Graziosi (1911-1966), cresciuto in una famiglia di musicisti (suo padre Antonio aveva suonato con Mascagni e Zandonai), diplomato al Conservatorio di Pesaro, è stato uno dei più importanti musicologi del secondo Novecento. Dal 1946 al 1952 fu critico musicale dell’Avanti! In quegli stessi anni redasse anche voci per il Dizionario delle Opere (Bompiani), l’Enciclopedia della Musica (Ricordi), e fu condirettore dell’Enciclopedia dello Spettacolo.
Pubblicò con Einaudi l’importante saggio L’interpretazione musicale. Fu consulente dell’Accademia Filarmonica Romana, per la quale ha curato la stesura dei programmi dei concerti e il volume L’Accademia Filarmonica nella vita musicale romana (1821-1964).
Gli ultimi anni della sua attività furono dedicati, con vari strumenti, alla diffusione dell’istruzione musicale in Italia.

Stefano Graziosiattualmente docente di letteratura italiana nelle scuole superiori, ha tenuto un corso di Scrittura presso l’Università Lumsa e un seminario su Violino e letteratura al Dams della Terza Università di Roma.
È stato co-sceneggiatore e interprete dell’episodio Discutiamo, discutiamo di Marco Bellocchio, nel film Amore e rabbia. Ha collaborato come autore/conduttore a molte trasmissioni della Rai in cui si è occupato soprattutto di letteratura e di musica. Ha scritto per La Repubblica, Percorsi, Penthouse. Collabora con l’agenzia Il Menabò di Roma.

Grazia Rondini www.lachiavediviolino.it

Tutta l’opera di Pietro Nardini raccolta in un Catalogo Tematico

Nell’anno delle celebrazioni dei 250 anni dalla morte di Giuseppe Tartini, sembra inevitabile ricordare il suo prediletto e migliore allievo Pietro Nardini (Livorno 1722 – Firenze 1793) presentando un’opera fondamentale di tutta la sua attività che oggi sembra tornata all’attenzione degli esecutori più consapevoli: si tratta di un Catalogo tematico pubblicato nel 2017 dalla Casa Editrice Diastema, “Pietro Nardini, da Livorno all’Europa” a cura dei ricercatori Federico Marri e Marie Rouquié.

“Pietro Nardini, da Livorno all’Europa” di F. Marri e M. Rouquié, Diastema Editrice

La scuola violinistica di Tartini era famosa in tutta Europa: molti giovani si affidavano a lui per apprendere non solo i segreti tecnici e musicali, ma soprattutto la convinzione dell’inseparabilità del bello, del buono e dell’essere, una linea educativa e di pensiero a cui Nardini si adeguò velocemente divenendo un apprezzato esperto acclamato in tutta Europa e tra i più celebrati del secondo Settecento, sia come violinista che come compositore.

La forza della sua identità stilistica risiedeva nel cantabile, nell’ornamentazione espressiva degli Adagio e nel magistrale virtuosismo tecnico che lo portarono a fondare una scuola violinistica a Firenze formando, a sua volta, eccellenti strumentisti.

Pietro Nardini strinse con Tartini una vicinanza musicale ma anche umana, tanto che lo seguì fino agli ultimi momenti della sua malattia e della vita, prodigandosi per lui. Del suo maestro ha conservato la chiarezza e l’efficacia delle melodie e ha continuato a sviluppare la cantabilità strumentale, ovvero l’arte di fiorire l’adagio. Nardini, però, viveva nel suo tempo, nel nascente classicismo, e si inserì nello sviluppo di questo nuovo stile. La sua, lungi dall’essere una musica indefinibile o addirittura contraddittoria, congiunge profondità del discorso e leggerezza di un linguaggio in cui essenzialità e frivolezza lavorano insieme.
Accostarsi a Nardini significa accettare di introdursi nella complessità determinata dal trovarsi «tra due stili»: la ricerca di significati, di discorsi propri della musica barocca viene infatti trascritta da lui in un linguaggio nuovo, costituito da un registro prevalentemente elegante, ricco di colori musicali e pieno di spirito.

La musica di Nardini è una chiave che apre la porta di un linguaggio nuovo ancora troppo poco utilizzato dai violinisti di oggi, ma che arricchisce la percezione e l’interpretazione degli stili barocco e classico.

Pietro Nardini

Questo catalogo – per la cui redazione ci si è avvalsi dei moderni strumenti di ricerca e che per la prima volta presenta in modo sistematico la produzione di Nardini dopo il pionieristico lavoro di Clara Pfäfflin – vuole essere proprio la porta per entrare nell’opera di un violinista-compositore che suscitò l’interesse dei Mozart e di numerosi altri suoi contemporanei.

Il lungo lavoro di ricerca è stato commissionato al musicologo Federico Marri, direttore dell’Istituto Superiore di Studi Musicali «Pietro Mascagni» di Livorno, e alla violinista Marie Rouquié dagli Amici dei Musei e dei Monumenti Livornesi nella veste della sua Presidente, la dott.ssa Annamaria Pecchioli Tomassi, inserendosi in un percorso che gli Amici dei Musei e dei Monumenti Livornesi da qualche anno hanno iniziato a sostegno delle ricerche condotte dalla Biblioteca dell’Istituto Superiore di Studi Musicali «Pietro Mascagni» di Livorno, allo scopo di far meglio conoscere musicisti e personaggi nativi di Livorno che ebbero e continuano a raccogliere importanti riconoscimenti a livello internazionale, per renderne vivo e costante l’interesse.

Grazia Rondini www.lachiavediviolino.it

VIVALDI E IL TEATRO NEL CD DI LE CONCERT DE LA LOGE

E’ uscito il CD  “VivaldiConcerti per violino VIII, Il teatro” pubblicato dalla casa discografica francese Naïve per la collana Vivaldi Edition: si tratta di sei concerti di Antonio Vivaldi, per il repertorio dedicato al teatro, eseguiti da Le Concert de la Loge, un ensemble parigina diretta dal violinista Julien Chauvin. Il CD contiene i concerti RV 187, RV 217, RV 235, RV 321, RV 366, RV 387.

Antonio Vivaldi per formazione, talento e carriera è sempre stato considerato un autore strumentale. Eppure, per il Prete Rosso, l’opera rappresentava un’attrazione irresistibile, un mondo seducente nel quale gettarsi a capofitto per mettersi in gioco come uomo e come artista, investendo denaro ed energie, rischiando di proprio. Il mondo del teatro e quello della musica erano, comunque, per Vivaldi, due ambiti strettamente connessi: nelle partiture operistiche si ravvisano raffinatezza e fantasia riservate alle parti strumentali e, di contro, nella musica strumentale si colgono propensione alla cantabilità, tensione affettiva e immaginifica. In particolare, dal 1713, il teatro e la musica strumentale iniziano a intrecciarsi in modo significativo nell’esperienza del compositore in modo cosi vasto che all’epoca non aveva eguali se non in Händel. L’aspetto più evidente di questo rapporto tra musica strumentale e il teatro si esprime nei concerti rappresentativi come Le quattro stagioni, La tempesta di mare, La notte, Il sospetto, L’inquietudine, Il riposo, L’amoroso, Il piacere che contengono precisi riscontri con brani vocali. Numerosi sono inoltre i suoi concerti per violino, lo strumento più vicino al suono della voce umana, che esprimono un’attitudine ad evocare dimensioni pittoriche e teatrali.

Il Concerto in sol minore RV 321 è uno di quei concerti in cui Vivaldi dimostra di saper comporre musica di elevata qualità anche senza ricorrere al virtuosismo: la sua parte solistica può essere eseguita tutta in prima posizione, così come i colpi d’arco più impegnativi e le doppie corde, sono di facile esecuzione. E’ di concezione sontuosa, invece, il Concerto in do maggiore RV 187 con una parte solistica altamente virtuosistica e cantabile che contiene arpeggi, colpi d’arco, doppie corde e una valorizzazione del registro acuto e cantabile del violino. Il Concerto in si minore RV 387 appartiene al repertorio di Anna Maria, prediletta da Vivaldi, la più celebre musicista dell’Ospedale della Pietà, ammirata in tutta Europa. Anna Maria suonava il violino, la viola, il violoncello, ma anche il clavicembalo, il mandolino e il liuto. Il suo repertorio è contenuto in un volume conservato nella biblioteca del Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia. Il Concerto in re maggiore RV 217 presenta un andamento imprevedibile e discontinuo soprattutto nella parte solistica, é un lavoro disseminato di tocchi geniali e teatrali. Il Concerto in si bemolle “Il Carbonelli” RV 366 fu composto da Vivaldi forse per rendere omaggio a Giovanni Stefano Carbonelli, (di origini francesi, cognome originario Carboneu), direttore d’orchestra del Drury Lane Theatre di Londra. Non è chiaro se e quando Vivaldi conobbe Carbonelli, ma questo concerto ebbe una certa diffusione in Europa, anche perchè fece parte del repertorio di Anna Maria. Rappresenta, infine, un capolavoro virtuosistico il Concerto in re minore RV 235 in cui la teatralità vivaldiana si esprime soprattutto nell’Allegro finale: la parte solistica presenta parecchie corde doppie, vari passaggi difficili con colpi d’arco in staccato e legato.

Julien Chauvin ha registrato suonando un violino di Pietro Guarneri del 1721.

Grazia Rondini www.lachiavediviolino.it