La rosa damascena non emana più i suoi profumi, i maestri saponificatori di Aleppo muoiono sotto le bombe e gli aromi incensati del tabacco di Latakia sono ormai un lontano ricordo. Ieri le parole pronunciate da Jordi Savall nell’Aula Magna della Sapienza sembravano tagliate apposta per l’apocalisse siriano, e quando dico “tagliate” intendo nel senso letterale della parola, poiché il maestro ne ha usate poche, intense e calibrate, proprio come la sua musica.
Come non ricordare poi le altre apocalissi mediorientali, quella curda, quella palestinese, e poi ancora gli armeni, gli ebrei, le loro terre che oggi, da troppo tempo, esalano il fumo acre delle case sventrate dalle bombe, drammi che è sempre scomodo ricordare. A morire sotto le bombe sono gli uomini e la loro cultura, ma quello che Savall ci ha fatto capire è che nessun conflitto, per quanto esteso e profondo, potrà mai cancellare completamente le tracce di ciò che gli uomini hanno cantato.
Grazie al cielo l’approccio che Savall ha sempre avuto con la sua musica non ha mai avuto niente di ideologico, ed anche ora che sono passate poche ore dal concerto tenuto presso l’Aula Magna della Sapienza per la I.U.C. (Istituzione Universitaria dei Concerti), quello che rimane dentro è la bellezza della musica e lo stupore per tanta, pur studiata, spontaneità creativa.
Quel che stasera Savall ha messo insieme è un intero patrimonio musicale della cultura armena, sefardita, greca e ottomana, brani tramandati dalla tradizione orale e dalla mano paziente dell’erudito moldavo Dimitrie Cantemir (1673-1723), attraverso la sua opera “Il Libro della Scienza e della Musica”, il tutto accompagnato da strumenti poco conosciuti in occidente, e che pure sono capaci di destare nella nostra immaginazione suoni familiari. A cominciare dal “Oud” (che manco a farlo apposta diede l’origine al nome familiare di “Liuto”), e poi al “Kanun”, al “Santur” (derivati entrambe dalle antiche cetre, rispettivamente suonati a pizzico e a percussione, diffusi anche in Europa), al “Kaval” (una sorta di flauto in legno proveniente dall’area balcanica), alle percussioni di Pedro Estevan.
E poi gli strumenti di Jordi Savall, una Viola d’arco, una Lira ed un Rebab. Solo per descrivere uno di questi strumenti e il loro influsso nella storia della musica occidentale sarebbe necessaria un’enciclopedia, invece nei nostri conservatori nei testi di storia della musica sono spesso citati in modo frettoloso, così che quando si ha occasione di ascoltarli dal vivo, come a sottolineare la nostra ignoranza, ci si stupisce che ancora sopravvivano (nonostante le bombe e i genocidi).
Molto interessante il Rebab, che tra tutti gli strumenti ad arco forse è il più diffuso nelle culture africane, asiatiche e mediorientali, seppure nelle infinite varianti locali, reca la costante di avere una pelle tirata a mo’ di membrana su una cassa armonica, fino a quando da qualche parte qualcuno ebbe l’idea di sostituirla con una tavola d’abete rosso, per poi dare origine al violino moderno (ma questa è un’altra storia moderna, circa 500 anni).
Quindi il concerto di Jordi Savall ci sorprende in tutto, non solo per la nostra ignoranza, troppo facile ridurre ad un semplice “non lo sapevo”, è che proprio non dobbiamo permettere alla cattiva coscienza di impedirci di prendere atto che la musica, oltre ad essere un linguaggio universale, è capace di mettere insieme suoni, persone e strumenti, in una sorta di cenacolo originario che annulla le differenze e che conduce ad un sentire comune.
Non è un semplice mettersi a ballare sulla spiaggia insieme agli indigeni, bensì un ridestare nelle nostre coscienze sopite canti struggenti, mai completamente dimenticati. E questo è stato possibile solo alla sensibilità e all’instancabile lavoro di ricerca che Savall conduce da una cinquantina d’anni, coprendo praticamente ogni possibile repertorio musicale antico, restituendogli vita e vigore.
A questo proposito mi piacerebbe che i filologi di musica antica ascoltassero con più attenzione il canto di Savall, perché oltre ad aver ridato dignità all’improvvisazione (chiedete ad un violinista barocco o moderno di improvvisarvi qualcosa e poi riferitemi le vostre impressioni), mi piacerebbe anche che ascoltassero il vibrato di Savall, non solo quello della mano sinistra, ma anche quello dell’arco. E già che ci siamo anche il tenue ed intenso vibrato che i due suonatori di Oud sono stati capaci di estrarre dai loro “primitivi” strumenti.
In poche parole, se anche a livello puramente istintivo, non si è rimasti rapiti dalla ricchezza degli armonici che questi musicisti sono stati capaci di creare, assieme al nitore delle corde sapientemente pizzicate e percosse, vuol dire che si è relegati per sempre al mondo dell’oscurità. Fortunatamente il pubblico romano ha percepito tanta ricchezza ed ha applaudito in modo sincero ed entusiastico, non solo perché a suonare era Jordi Savall, ma perché la sua musica ci ha svegliati, e lo ha fatto in modo magnifico.
Garbata e mai invadente l’amplificazione del concerto.
Testo e fotografie di Claudio Rampini.