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Le qualità del Quatuor Diotima.

In occasione del 150° anniversario della nascita di Arnold Schönberg e del centenario della nascita di Pierre Boulez, nel pomeriggio di sabato 30 novembre, presso l’Aula Magna Sapienza per il ciclo Calliope, la IUC Istituzione Universitaria dei Concerti, ci ha proposto il seguente programma eseguito dal Quatuor Diotima:

  • Ludwig van Beethoven Quartetto n. 12 in mi bemolle maggiore op. 127
  • Pierre Boulez Livre pour Quatuor (movimenti Ia e Ib, revisione del 2012)
  • Arnold Schönberg Quartetto n. 1 in re minore op. 7

E’ pur vero che il quartetto Diotima ha scelto il proprio nome in omaggio al romanticismo di Friederich Hölderlin e al compositore Luigi Nono, ma chi come me ama Robert Musil, non può fare a meno di pensare al personaggio di Diotima che figura in uno dei più grandi romanzi del 1900.

Per questo il Quatuor Diotima lo potremmo definire “quartetto senza qualità”, in omaggio al celebre romanzo di Robert Musil “L’uomo senza qualità“, non solo per il suo nome che riporta immediatamente ad una delle grandi figure femminili che affiancano Ulrich, ma anche e soprattutto per il contesto culturale perfettamente sincronico in cui le musiche eseguite dal quartetto e il romanzo di Musil videro la luce nei primi anni del 1900.

«Eppure Diotima sentiva che quasi poteva amare quell’uomo; per lei era come la musica moderna, del tutto insoddisfacente ma carica di una diversità che la emozionava»

La scelta del Quatuor Diotima di aprire con Beethoven pare bene in linea con il resto del programma, soprattutto perché non ha più senso dividere i vari generi musicali, poiché non esisterebbe Schönberg senza Beethoven, cambia la forma con il tempo ma non la sostanza.

E la sostanza è rappresentata dalla straordinaria bellezza del suono del Quatuor Diotima, espressivo, sempre molto ben equilibrato sotto la guida sapiente di Yun-Peng Zhao, che suona un magnifico violino di Francesco Ruggeri, dalla voce carezzevole e perfetta.

Impegnativo per esecuzione ed ascolto il brano di Boulez, una serie di suoni ben cadenzati che tuttavia non richiamano astratti giochi di matematiche dissonanze, e nemmeno oscure e apocalittiche atmosfere, ma un messaggio intenso fatto di silenzi planetari e suoni elementari, senza mai sconfinare nel caos. Non è facile suonare “senza qualità”.

Il primo quartetto di Schönberg ha chiuso degnamente la seconda parte del concerto, una monumentalità da cui non si esce intimoriti, ma piuttosto affascinati da una sonorità nuova e coinvolgente, in questo senso la capacità di un quartetto di produrre il buon suono è fondamentale, perché è il quartetto stesso che deve dare prova di aver bene introiettato il pensiero musicale del compositore.

Schönberg negli anni mi è sempre apparso piuttosto ostico all’ascolto, forse per un pregiudizio di cui non riuscivo a liberarmi relativo alla musica “dodecacofonica” (sic!), ed è stato proprio grazie alla natura del suono degli strumenti ad arco e alla loro infinita capacità di adattamento ad ogni contesto, che infine ascolto molto volentieri la musica contemporanea eseguita da un buon quartetto d’archi. Niente di diverso da ciò che offre il romanzo di un grande autore come Robert Musil, tanto per citarne uno a caso.

Molto bello e presente il violoncello, uno strumento francese settecentesco, splendido e “caldo” il primo violino e del suo Ruggeri di cui abbiamo già detto, quindi liuteria francese settecentesca per il secondo violino, e liuteria moderna novecentesca per quanto riguarda la viola.

Un ringraziamento particolare va all’Istituzione Universitaria dei Concerti perché credo sia una tra le poche realtà musicali in Italia ad offrirci stagioni cameristiche di grandissimo livello.

Testo e foto di Claudio Rampini

Gli echi americani del Quartetto Adorno

Lo scorso martedì 19 Novembre presso l’Aula Magna Sapienza, per la stagione concertistica della I.U.C. (Istituzione Universitaria dei Concerti), si è esibito il Quartetto Adorno con il seguente programma:

  • Samuel Barber Quartetto op. 11 in re maggiore
  • Mario Castelnuovo-Tedesco Quartetto n. 3 op. 203
  • Bernard Herrmann Echoes per quartetto d’archi
  • Antonín Dvořák Quartetto n. 12 in fa maggiore op. 96 “Americano”

Aldilà dei riferimenti al vasto contesto musicale americano, a me è sembrato che il Quartetto Adorno nella scelta di questo impegnativo repertorio novecentesco, abbia voluto esprimere freschezza di ispirazione e capacità di introspezione. Quindi tanta energia e capacità di restituire ad ogni singola nota il carattere che gli è stato impresso dal compositore. Gli echi “americani”, che pure si avvertono chiaramente, vuoi il richiamo all’adagio per archi di Barber ed usato in mille occasioni e contesti diversi, la Beverly Hills di Castelnuovo-Tedesco, il balletto di Herrmann, ed infine i richiami ai paesaggi della frontiera di Dvořák, sono da considerare un importante valore aggiunto in un contesto di siffatta complessità.

Il Quartetto Adorno ha espresso un suono che definirei “importante”, ben pesato ed equilibrato, non mi sembra di aver ravvisato nessuna ostentazione o esagerazione da ciascuna delle parti, ottima la scelta di porre la viola di fronte al primo violino, sicuramente non una novità nella disposizione degli strumenti in un quartetto d’archi, ma sempre capace di offrire una sonorità originale per chi è capace di comprenderla.

Infatti, non si tratta semplicemente di porre in primo piano la viola per “farla sentire più forte”, bensì di cambiare la modalità del dialogo tra gli strumenti, ed infatti questo si è capito molto bene perché in questo programma, come spesso accade nel repertorio novecentesco, la viola costituisce a tutti gli effetti il perno su cui è incardinata la struttura stessa del quartetto.

Mi ha fatto molto piacere apprendere che la viola suonata da Benedetta Bucci fu costruita da Igino Sderci nel 1939, ed è appartenuta a Piero Farulli, l’indimenticato violista del Quartetto Italiano.

La viola Sderci del 1939 appartenuta a Piero Farulli. L’ultima volta l’ho vista e sentita suonare proprio dalle mani del grande Maestro, una trentina d’anni fa presso la Scuola di Musica di Fiesole.

Uno straordinario affiatamento è costituito dal primo e dal secondo violino, che vede in risalto due magnifici strumenti di Ansaldo Poggi, rispettivamente del 1929 e del 1961, dotati di una sonorità morbida, penetrante e mai aggressiva. Il tutto completato dalla presenza di un ottimo violoncello di scuola Giuseppe Fiorini, dotato di un’ottima timbrica e capacità dinamica, che va a comporre uno strardinario quadro della liuteria d’autore italiana: infatti, se consideriamo i legami di Sderci con Simone F. Sacconi, il quale ebbe stretti rapporti con Fiorini stesso, questi strumenti suonati dal Quartetto Adorno rappresentano la summa di una filosofia del suono che tanto ha influito nella tradizione liutaria novecentesca.

Testo e foto di Claudio Rampini

Michael Barenboim: un violinista “diverso”.

Lo scorso 5 Novembre, per l’ottantesima stagione dell’Istituzione Universitaria dei Concerti I.U.C. presso l’Aula Magna Sapienza, si è tenuto un bellissimo ed originale concerto di Michael Barenboim accompagnato da Natalia Pegarkova al pianoforte, e Gilbert Nouno al live electronics per i brani di Boulez.

Questo il programma della serata:

Lili Boulanger 3 Morceaux per pianoforte (non eseguito).

Pierre Boulez Anthèmes 1 per violino solo

Henri Vieuxtemps Sonata in si bemolle maggiore op. 36 per viola e pianoforte

Maurice Ravel Sonate posthume per violino e pianoforte

Pierre Boulez Anthèmes 2 per violino e live electronics

Ho gradito particolarmente i brani di Vieuxtemps e Ravel, rispettivamente per viola e pianoforte, e per violino e pianoforte, dove Barenboim ha rivelato fin da subito una grande attenzione all’esecuzione senza mai perdere di vista la bellezza del suono.

Si potrebbe definirla una “questione di carattere”, quella di Barenboim di non avere nessuna intenzione di sedurre il pubblico, ma non per scontrosità o tantomeno mancanza di rispetto, ma perché in fondo sia l’esecutore che il pubblico sono lì per ascoltare il pensiero musicale di un compositore, e niente altro.

Certamente il suono caldo della viola, uno strumento contemporaneo di area parigina su probabile modello Maggini, ha contribuito a riscaldare gli animi, confermando la disposizione più unica che rara di Barenboim, di essere un musicista di vedute molto ampie, perché passare da un repertorio classico ad uno di musica contemporanea non è mai facile, ed in questo credo che sia importante l’attenzione che il musicista ha sempre dedicato al repertorio cameristico.

Il tutto condito dalla presenza di un violino d’eccezione: uno Stradivari del 1708 ““Ex-Andrejeus”, in straordinarie condizioni di suono e di conservazione, e che pure ha dimostrato attraverso le abili mani di Barenboim di affrontare l’ostico repertorio contemporaneo senza, per così dire, battere ciglio.

Barenboim predilige le rarefatte atmosfere della musica contemporanea, ma questo non significa trascurare la letteratura musicale delle epoche passate, perché voler porre confini tra un passato e un futuro musicale solo da un punto di vista orecchiabile e melodico, e quindi di facilità di ascolto, risulta piuttosto pretestuoso, se non addirittura pregiudizievole nei confronti del repertorio contemporaneo.

In questo Barenboim sembra essere a suo perfetto agio, producendo il giusto suono con grande misura e un intimo trasporto emotivo. Se pensiamo a quello che un violino può fare, non possiamo non pensare ai divertimenti con cui Paganini intratteneva il suo pubblico eseguendo i versi degli animali, o addirittura vedere il violino usato dai clown dei circhi e produrre suoni improbabili ad accompagnare i gesti goffi del pagliaccio.

Il violino emette rumori molesti solo se è suonato male, per il resto produce solo suoni.

I suoni della musica di Boulez eseguita da Barenboim non sono né buffi e nemmeno divertenti, sono i respiri che accompagnano i nostri pensieri d’ogni giorno, laddove sembra trasparire una certa preoccupazione per nostro futuro. Altro che musica del futuro, quando è il futuro stesso ad essere in discussione!

Pregevole la tecnica esecutiva del live electronics di Gilbert Nouno nel creare echi e campionature di suono, così da conferire al suono del violino di Barenboim una straordinaria dimensione spaziale.

Testo e foto di Claudio Rampini

La maturità del Quartetto di Cremona

Ieri sera presso l’Aula Magna Sapienza di Roma, per la stagione IUC (Istituzione Universitaria dei Concerti), un concerto fuori programma del Quartetto di Cremona con musiche di Beethoven, Janáček, Mendelssohn (qui il programma completo del concerto).

Il Quartetto di Cremona dedica un ciclo di concerti alle opere della maturità dei grandi compositori, ma un dubbio che penso legittimo è proprio quello che riguarda il concetto di “maturità”: quella dei compositori o quella dei musicisti del Quartetto di Cremona?

Non è un quesito da poco, ma penso che ad un certo punto del loro percorso artistico il Quartetto di Cremona abbia percepito oggi ancor più del passato, di essere pronto ad esprimere il messaggio intimo e “segreto” dei grandi quartetti, e di poterlo fare con una semplicità vera e non ostentata, e al tempo stesso ricca e complessa, propria di chi ha passato la vita a studiare opere di repertorio, nel tentativo a me pare riuscito bene, di esprimere il pensiero di un compositore.

Perché la difficoltà in un programma di brani “maturi”, non è solo quella esecutiva, ma soprattutto quella di mantenere una sorta di tensione drammatica pur nella diversità degli spiriti e delle epoche di appartenenza dei compositori. Per questo io credo che la maturità dimostrata dal Quartetto di Cremona sia da associare alla padronanza, né rigida e né autoritaria, con cui hanno eseguito la loro musica.

Fatta la premessa, ora possiamo passare ad un argomento a me molto caro: il suono. Il Quartetto di Cremona ci ha abituato negli anni ad una dimensione che io definirei non professionale del suono. Nota bene: non sto dicendo che il Quartetto di Cremona non sia professionale, perché negli anni ci ha abituato a concerti sempre unici ed originali. Fare musica, vivere di rendita su uno standard magari alto, come purtroppo accade spesso in tutti gli ambiti dell’arte, non paga in termini di originalità e creatività. Il Quartetto di Cremona in questo senso è altro, e per questo io lo definisco “non professionale”, ed è ammirevole la loro capacità di tenere alta la tensione creativa attraverso il tempo.

L’impegno e il perdersi completamente nella musica si è percepito nettamente ieri sera e il pubblico ha capito benissimo la qualità della musica e del suono del Quartetto di Cremona, complice anche l’importante acquisizione da parte del violista Simone Gramaglia, una bellissima viola di Giovanni Paolo Maggini del 1625 che la Fondazione Pro Canale gli ha affidato.

E’ ben risaputo che il violista è il cardine su cui ruota un quartetto d’archi, e la personalità di Gramaglia insieme alla sua viola precedente, una Gioachino Torazzi del 1680, ha fatto molto non solo per non smentire l’assunto di cui sopra, ma io ritengo che sia dotato al tempo di importanti qualità solistiche.

Con la viola Maggini è quindi cambiato anche il suono del quartetto, che a mio parere è risultato più pieno e ricco di sfumature. A scanso di equivoci, qui non parliamo di una viola che “suona forte”, perché la Maggini è tutt’altro che un mostro che esprime bruta potenza, bensì uno strumento capace di una proiezione non comune del suono, percepibile nettamente anche nei “pianissimo” più sussurrati e delicati.

Quindi uno strumento capace di “cucire” e di tenere unita la complessa tessitura del repertorio cameristico, tanto più se moderno, laddove la viola spesso emerge sovrana a sottolineare un ruolo per niente ancillare rispetto al contesto musicale.

Realtà questa che troppo spesso non sembra essere tenuta presente nemmeno in ambito sinfonico, se pensiamo che il quartetto nella sua essenzialità esprime la completezza di un’orchestra.

Testo e foto di Claudio Rampini

Eccezionale documentario su Simone F. Sacconi (1964).

Per vie del tutto casuali questa mattina sono incappato in un eccezionale documentario sulla costruzione del violino secondo il metodo classico cremonese, spiegato alla televisione americana da Simone F. Sacconi, che oltre ad essere stato uno dei più grandi liutai del 1900, è stato anche l’autore de “I ‘segreti’ di Stradivari”, un’opera che a più di 50 anni dalla sua pubblicazione resta più che mai attuale e di riferimento per i liutai.

Il documentario (conservato presso la Libreria del Congresso), fu girato presso il laboratorio Wurlitzer di New York nel 1964 a circa un anno dalla scomparsa di Rembert Wurlitzer. Se da una parte l’impresa Wurlitzer è conosciuta ai più per i famosi juke-box che hanno allietato per decenni le nostre giornate musicali con le ultime “hit”, dall’altra, grazie a Rembert Wurlitzer, era anche specificamente dedicata al commercio e al restauro di strumenti ad arco di pregio.

In sintesi, Wurlitzer e Sacconi furono riferimento per i maggiori musicisti di tutto il mondo e lo stesso si può dire delle perizie e dei restauri a firma di Sacconi riguardanti gli strumenti di Stradivari, Guarneri del Gesù, Amati e tanti altri della tradizione classica italiana.

Nel video compaiono tra gli altri Lee e Marianne Wurlitzer, rispettivamente moglie e figlia di Rembert, e poi anche Dario D’Attili, che nei fatti è stato il successore di Sacconi presso il laboratorio di Wurlitzer.

Sacconi ci appare sorridente, in un inglese il cui accento rivela inequivocabilmente la sua origine italiana, che con sguardo penetrante e profondo ci introduce alla costruzione del violino secondo il metodo classico cremonese, lo stesso che verrà poi descritto con dovizia di particolari nel suo libro “I ‘segreti’ di Stradivari”.

Nelle immagini compare anche una copia del violino intarsiato “Hellier” di Stradivari, ancora non verniciato, che dovrebbe essere lo stesso che poi Sacconi ha donato alla città di Cremona, ed oggi conservato presso il Museo del Violino.

Una volta di più, a più di 50 anni dalla sua scomparsa, Sacconi ci fa capire che l’arte della liuteria non ha limiti geografici, senza il suo talento e la sua generosità, purtroppo mal ripagata alla fine della sua vita, il nostro percorso artistico avrebbe avuto sicuramente un valore minore e staremmo ancora a pasticciare con legni e vernici nel tentativo spesso maldestro di scoprire il “segreto” di Stradivari.

Un ringraziamento particolare è dovuto alla rete digitale delle biblioteche italiane MLOL, che mi ha rinviato al documentario di Sacconi presso la Libreria del Congresso.

Il documentario è visibile cliccando sull’immagine di Sacconi.

Claudio Rampini