Pablo Sáinz-Villegas: una chitarra del Mediterraneo.

Lo scorso sabato 12 Aprile, si è tenuto presso l’Aula Magna della Sapienza il primo concerto della rassegna “Chitarre del Mediterraneo”, tenuto da Pablo Sáinz-Villegas, che la I.U.C. (Istituzione Universitaria dei Concerti) ha organizzato in co-produzione con l’Istituzione Cervantes.

In programma una vasta offerta di brani musicali antichi, moderni e contemporanei, tutti per chitarra solista, che a mio parere ha reso questo concerto particolarmente interessante e anche decisamente impegnativo.

Pablo Sáinz-Villegas si è esibito con una chitarra costruita dal liutaio tedesco Matthias Damman, divenuto famoso per la sua tecnica costruttiva che prevede una elaborata progettazione della tavola armonica, così che lo strumento ne tragga un notevole guadagno in termini di qualità e proiezione sonora. In effetti la chitarra di Sáinz-Villegas, sicuramente suonata con grande perizia, è stata in grado di distribuire il suono in sala senza nessuna difficoltà apparente, sempre toccando le corde con misura e delicatezza.

Personalmente preferisco strumenti costruiti seguendo materiali e tecniche tradizionali, ma le esperienze di ascolto nel passato con questo tipo di strumenti in mano a musicisti di grande valore, tra i quali Manuel Barrueco, ed ora Pablo Sáinz-Villegas, sono state più che convincenti: straordinarie.

Tra i brani eseguiti da Sáinz-Villegas, quello che mi ha colpito di più è stata la “Ciaccona” di Bach, arrangiata dallo stesso chitarrista esecutore e universalmente conosciuta per essere stata composta per violino solo, e che costituisce da sempre una sorta di cattedrale sonora, che per dinamiche e musicalità mette alla prova qualsiasi violinista (e qualsiasi violino).

Conosciamo la trascrizione per pianoforte di Busoni, divenuta anch’essa un classico nel repertorio di ogni pianista che si rispetti, ma sulla chitarra il mio giudizio è rimasto sospeso; fino ad oggi. Sáinz-Villegas ne ha saputo rendere la sacralità e il delicato intreccio di equilibri tra luci ed ombre, laddove i silenzi non sono vuoti e nemmeno possono essere definiti come pause, ma che formano una tensione straordinariamente ponderata e tangibile.

Ma anche per brani molto conosciuti come “Asturias” di Albéniz, Sáinz-Villegas ha saputo darne un’interpretazione intima e sentita, lontana da effetti speciali e ansie da prestazione, ma soprattutto riuscendo a passare con disinvoltura da un compositore all’altro con una capacità trasfigurativa da far dubitare che si trattasse ogni volta dello stesso chitarrista.

Infine, io credo che questo viaggio nella cultura e la musica mediterranea tra Spagna e Italia, faccia capire ora più che mai, che aldilà delle divisioni causate dalla politica e dall’economia, esiste un patrimonio immateriale di inestimabile valore, e per questo indistruttibile, ma che può essere dimenticato o ignorato dalla nostra generazione. Questo io credo che sia il messaggio intrinseco voluto da chi ha organizzato questa rassegna musicale, e che il chitarrista Pablo Sáinz-Villegas ha saputo interpretare così bene.

Ricordo che la rassegna “Chitarre del Mediterraneo” continuerà il mese di Maggio con altri tre concerti:

CARLOTTA DALIA – 9 Maggio, 2025 ore 21:00

Biglietti: https://www.vivaticket.com/it/ticket/carlotta-dalia-chitarra/264627

ANDREA ROBERTO – 14 Maggio, 2025 ore 20:30

Biglietti: https://www.vivaticket.com/it/ticket/andrea-roberto-chitarra/264626

GIAN MARCO CIAMPA – 24 Maggio, 2025 ore 17:30

Testo e foto di Claudio Rampini

Il suono oltre la musica: il Quartetto di Cremona.

Per l’80° stagione I.U.C. presso l’Aula Magna Sapienza, si è tenuto lo scorso 1° Marzo un concerto molto interessante del Quartetto di Cremona dedicato all’Arte della Fuga BWV 1080 e allo studio del contrappunto di J. S. Bach.

La novità è che la partitura originale non avendo indicazioni specifiche sull’esecuzione per quello che riguarda gli strumenti o le voci, è che contrariamente a ciò che si fa di solito, il Quartetto di Cremona ha deciso di affrontare quest’opera bachiana con il quartetto d’archi, riservando una sorta di felice contaminazione al flauto dolce, suonato dal violista Simone Gramaglia, che in quest’occasione suona anche la viola tenore.

E poi Paolo Andreoli, che si esibisce al violino e alla viola contralto, fanno sì che per un quartetto d’archi classico, vengano suonati ben 7 strumenti. A parte la prova di bravura, pure consentita da un’esperienza cameristica lunga 25 anni, il risultato è stato a dir poco sorprendente sono rimasto subito attratto dal suono. Sembra una banalità, ma spesso distinguere il suono dalla musica non è cosa facile, perché la bellezza del suono non è mai scontata, e Bach è soprattutto bellezza del suono, perché se questo aspetto venisse meno si perderebbe gran parte della delicata filigrana bachiana.

La padronanza del suono è come il coraggio secondo Don Abbondio: se non ce l’hai, non è che te la puoi far venire. Certamente gli anni di studio e di esperienza sono importanti, ma il buon suono si esprime sempre con semplicità, mai attraverso un pensiero razionale, la ricerca del musicista attraverso Bach è quella dell’essenzialità. Non c’è bisogno di effetti speciali.

Ma soprattutto il Quartetto di Cremona sembra essersi concesso la libertà di giocare leggero con il contrappunto bachiano, così che anche se non sei proprio ben documentato sulle ragioni musicologiche di Bach, ecco che subito riesci a cogliere il senso della “Fuga” e anche quello del “contrappunto”, non solo perché nei ventuno pezzi eseguiti sono figurazioni che ricorrono puntualmente, ma si riesce perfino a cogliere una dimensione di gioco come parte naturale dell’astrazione musicale bachiana.

Uno degli aspetti che mi ha colpito è vedere comprese nel quartetto ben due viole, di cui una contralto, una tenore, che unitamente al violoncello formano una sezione di bassi di indiscutibile potenza e presenza, e che pure è risultata ben nitida e leggera. E’ vero che il Quartetto di Cremona abbia dovuto lavorare molto su questo pezzo particolare di repertorio non propriamente cameristico, ma infine la fatica è stata premiata perché non si sono avvertite da parte dei musicisti libertà eccessive e fastidiosi adattamenti tali da rendere irriconoscibile la musica di Bach, anzi, a mio modesto parere sembra proprio che Bach ne sia uscito benissimo.

Altra bella sorpresa di questo concerto, è vedere esibirsi Simone Gramaglia al flauto dolce, cosa che io personalmente non mi sarei mai aspettata vista la sua indiscutibile natura di violista, e che pure ha rivelato un sorprendente talento naturale esprimersi con immediatezza e semplicità tramite questo piccolo strumento a fiato.

L’Aula Magna della Sapienza era realmente gremita di pubblico, che ha apprezzato moltissimo la proposta musicale del Quartetto di Cremona.

Mezz’ora circa prima del concerto, grazie alla disponibilità della I.U.C., ho intrattenuto il pubblico con le mie storie di liuteria, illustrando la genesi e la storia della viola contralto. Un ringraziamento particolare a Cristiano Gualco, primo violino del Quartetto di Cremona, che è intervenuto con spiegazioni circa i brani eseguiti in concerto.

Testo e foto di Claudio Rampini

Le qualità del Quatuor Diotima.

In occasione del 150° anniversario della nascita di Arnold Schönberg e del centenario della nascita di Pierre Boulez, nel pomeriggio di sabato 30 novembre, presso l’Aula Magna Sapienza per il ciclo Calliope, la IUC Istituzione Universitaria dei Concerti, ci ha proposto il seguente programma eseguito dal Quatuor Diotima:

  • Ludwig van Beethoven Quartetto n. 12 in mi bemolle maggiore op. 127
  • Pierre Boulez Livre pour Quatuor (movimenti Ia e Ib, revisione del 2012)
  • Arnold Schönberg Quartetto n. 1 in re minore op. 7

E’ pur vero che il quartetto Diotima ha scelto il proprio nome in omaggio al romanticismo di Friederich Hölderlin e al compositore Luigi Nono, ma chi come me ama Robert Musil, non può fare a meno di pensare al personaggio di Diotima che figura in uno dei più grandi romanzi del 1900.

Per questo il Quatuor Diotima lo potremmo definire “quartetto senza qualità”, in omaggio al celebre romanzo di Robert Musil “L’uomo senza qualità“, non solo per il suo nome che riporta immediatamente ad una delle grandi figure femminili che affiancano Ulrich, ma anche e soprattutto per il contesto culturale perfettamente sincronico in cui le musiche eseguite dal quartetto e il romanzo di Musil videro la luce nei primi anni del 1900.

«Eppure Diotima sentiva che quasi poteva amare quell’uomo; per lei era come la musica moderna, del tutto insoddisfacente ma carica di una diversità che la emozionava»

La scelta del Quatuor Diotima di aprire con Beethoven pare bene in linea con il resto del programma, soprattutto perché non ha più senso dividere i vari generi musicali, poiché non esisterebbe Schönberg senza Beethoven, cambia la forma con il tempo ma non la sostanza.

E la sostanza è rappresentata dalla straordinaria bellezza del suono del Quatuor Diotima, espressivo, sempre molto ben equilibrato sotto la guida sapiente di Yun-Peng Zhao, che suona un magnifico violino di Francesco Ruggeri, dalla voce carezzevole e perfetta.

Impegnativo per esecuzione ed ascolto il brano di Boulez, una serie di suoni ben cadenzati che tuttavia non richiamano astratti giochi di matematiche dissonanze, e nemmeno oscure e apocalittiche atmosfere, ma un messaggio intenso fatto di silenzi planetari e suoni elementari, senza mai sconfinare nel caos. Non è facile suonare “senza qualità”.

Il primo quartetto di Schönberg ha chiuso degnamente la seconda parte del concerto, una monumentalità da cui non si esce intimoriti, ma piuttosto affascinati da una sonorità nuova e coinvolgente, in questo senso la capacità di un quartetto di produrre il buon suono è fondamentale, perché è il quartetto stesso che deve dare prova di aver bene introiettato il pensiero musicale del compositore.

Schönberg negli anni mi è sempre apparso piuttosto ostico all’ascolto, forse per un pregiudizio di cui non riuscivo a liberarmi relativo alla musica “dodecacofonica” (sic!), ed è stato proprio grazie alla natura del suono degli strumenti ad arco e alla loro infinita capacità di adattamento ad ogni contesto, che infine ascolto molto volentieri la musica contemporanea eseguita da un buon quartetto d’archi. Niente di diverso da ciò che offre il romanzo di un grande autore come Robert Musil, tanto per citarne uno a caso.

Molto bello e presente il violoncello, uno strumento francese settecentesco, splendido e “caldo” il primo violino e del suo Ruggeri di cui abbiamo già detto, quindi liuteria francese settecentesca per il secondo violino, e liuteria moderna novecentesca per quanto riguarda la viola.

Un ringraziamento particolare va all’Istituzione Universitaria dei Concerti perché credo sia una tra le poche realtà musicali in Italia ad offrirci stagioni cameristiche di grandissimo livello.

Testo e foto di Claudio Rampini

Gli echi americani del Quartetto Adorno

Lo scorso martedì 19 Novembre presso l’Aula Magna Sapienza, per la stagione concertistica della I.U.C. (Istituzione Universitaria dei Concerti), si è esibito il Quartetto Adorno con il seguente programma:

  • Samuel Barber Quartetto op. 11 in re maggiore
  • Mario Castelnuovo-Tedesco Quartetto n. 3 op. 203
  • Bernard Herrmann Echoes per quartetto d’archi
  • Antonín Dvořák Quartetto n. 12 in fa maggiore op. 96 “Americano”

Aldilà dei riferimenti al vasto contesto musicale americano, a me è sembrato che il Quartetto Adorno nella scelta di questo impegnativo repertorio novecentesco, abbia voluto esprimere freschezza di ispirazione e capacità di introspezione. Quindi tanta energia e capacità di restituire ad ogni singola nota il carattere che gli è stato impresso dal compositore. Gli echi “americani”, che pure si avvertono chiaramente, vuoi il richiamo all’adagio per archi di Barber ed usato in mille occasioni e contesti diversi, la Beverly Hills di Castelnuovo-Tedesco, il balletto di Herrmann, ed infine i richiami ai paesaggi della frontiera di Dvořák, sono da considerare un importante valore aggiunto in un contesto di siffatta complessità.

Il Quartetto Adorno ha espresso un suono che definirei “importante”, ben pesato ed equilibrato, non mi sembra di aver ravvisato nessuna ostentazione o esagerazione da ciascuna delle parti, ottima la scelta di porre la viola di fronte al primo violino, sicuramente non una novità nella disposizione degli strumenti in un quartetto d’archi, ma sempre capace di offrire una sonorità originale per chi è capace di comprenderla.

Infatti, non si tratta semplicemente di porre in primo piano la viola per “farla sentire più forte”, bensì di cambiare la modalità del dialogo tra gli strumenti, ed infatti questo si è capito molto bene perché in questo programma, come spesso accade nel repertorio novecentesco, la viola costituisce a tutti gli effetti il perno su cui è incardinata la struttura stessa del quartetto.

Mi ha fatto molto piacere apprendere che la viola suonata da Benedetta Bucci fu costruita da Igino Sderci nel 1939, ed è appartenuta a Piero Farulli, l’indimenticato violista del Quartetto Italiano.

La viola Sderci del 1939 appartenuta a Piero Farulli. L’ultima volta l’ho vista e sentita suonare proprio dalle mani del grande Maestro, una trentina d’anni fa presso la Scuola di Musica di Fiesole.

Uno straordinario affiatamento è costituito dal primo e dal secondo violino, che vede in risalto due magnifici strumenti di Ansaldo Poggi, rispettivamente del 1929 e del 1961, dotati di una sonorità morbida, penetrante e mai aggressiva. Il tutto completato dalla presenza di un ottimo violoncello di scuola Giuseppe Fiorini, dotato di un’ottima timbrica e capacità dinamica, che va a comporre uno strardinario quadro della liuteria d’autore italiana: infatti, se consideriamo i legami di Sderci con Simone F. Sacconi, il quale ebbe stretti rapporti con Fiorini stesso, questi strumenti suonati dal Quartetto Adorno rappresentano la summa di una filosofia del suono che tanto ha influito nella tradizione liutaria novecentesca.

Testo e foto di Claudio Rampini

Michael Barenboim: un violinista “diverso”.

Lo scorso 5 Novembre, per l’ottantesima stagione dell’Istituzione Universitaria dei Concerti I.U.C. presso l’Aula Magna Sapienza, si è tenuto un bellissimo ed originale concerto di Michael Barenboim accompagnato da Natalia Pegarkova al pianoforte, e Gilbert Nouno al live electronics per i brani di Boulez.

Questo il programma della serata:

Lili Boulanger 3 Morceaux per pianoforte (non eseguito).

Pierre Boulez Anthèmes 1 per violino solo

Henri Vieuxtemps Sonata in si bemolle maggiore op. 36 per viola e pianoforte

Maurice Ravel Sonate posthume per violino e pianoforte

Pierre Boulez Anthèmes 2 per violino e live electronics

Ho gradito particolarmente i brani di Vieuxtemps e Ravel, rispettivamente per viola e pianoforte, e per violino e pianoforte, dove Barenboim ha rivelato fin da subito una grande attenzione all’esecuzione senza mai perdere di vista la bellezza del suono.

Si potrebbe definirla una “questione di carattere”, quella di Barenboim di non avere nessuna intenzione di sedurre il pubblico, ma non per scontrosità o tantomeno mancanza di rispetto, ma perché in fondo sia l’esecutore che il pubblico sono lì per ascoltare il pensiero musicale di un compositore, e niente altro.

Certamente il suono caldo della viola, uno strumento contemporaneo di area parigina su probabile modello Maggini, ha contribuito a riscaldare gli animi, confermando la disposizione più unica che rara di Barenboim, di essere un musicista di vedute molto ampie, perché passare da un repertorio classico ad uno di musica contemporanea non è mai facile, ed in questo credo che sia importante l’attenzione che il musicista ha sempre dedicato al repertorio cameristico.

Il tutto condito dalla presenza di un violino d’eccezione: uno Stradivari del 1708 ““Ex-Andrejeus”, in straordinarie condizioni di suono e di conservazione, e che pure ha dimostrato attraverso le abili mani di Barenboim di affrontare l’ostico repertorio contemporaneo senza, per così dire, battere ciglio.

Barenboim predilige le rarefatte atmosfere della musica contemporanea, ma questo non significa trascurare la letteratura musicale delle epoche passate, perché voler porre confini tra un passato e un futuro musicale solo da un punto di vista orecchiabile e melodico, e quindi di facilità di ascolto, risulta piuttosto pretestuoso, se non addirittura pregiudizievole nei confronti del repertorio contemporaneo.

In questo Barenboim sembra essere a suo perfetto agio, producendo il giusto suono con grande misura e un intimo trasporto emotivo. Se pensiamo a quello che un violino può fare, non possiamo non pensare ai divertimenti con cui Paganini intratteneva il suo pubblico eseguendo i versi degli animali, o addirittura vedere il violino usato dai clown dei circhi e produrre suoni improbabili ad accompagnare i gesti goffi del pagliaccio.

Il violino emette rumori molesti solo se è suonato male, per il resto produce solo suoni.

I suoni della musica di Boulez eseguita da Barenboim non sono né buffi e nemmeno divertenti, sono i respiri che accompagnano i nostri pensieri d’ogni giorno, laddove sembra trasparire una certa preoccupazione per nostro futuro. Altro che musica del futuro, quando è il futuro stesso ad essere in discussione!

Pregevole la tecnica esecutiva del live electronics di Gilbert Nouno nel creare echi e campionature di suono, così da conferire al suono del violino di Barenboim una straordinaria dimensione spaziale.

Testo e foto di Claudio Rampini