Per il ciclo Minerva della 81 stagione IUC, ieri si è esibito un duo d’eccezione costituito da Luigi Piovano e Antonio Pappano, che io ho sempre visto e ascoltato nel contesto sinfonico dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia: Piovano come primo violoncello, e Pappano come acclamato direttore.
Queste le musiche in programma:
Johannes Brahms Sonata n. 1 in mi minore op. 38
Sergej Rachmaninov Sonata in sol minore op. 19
Il sodalizio Pappano-Piovano non è una novità nel panorama musicale italiano, infatti è da circa 20 anni che questi due musicisti collaborano e si ebiscono regolarmente in concerto. Tuttavia, la memoria non riesce a prescindere dal contesto sinfonico in cui Pappano e Piovano sono da sempre inseriti, la domanda che potrebbe sorgere spontanea è la seguente: come se la caveranno con il repertorio cameristico?
Già al primo attacco della Sonata n.1 di Brahms ho notato un’intesa spontanea, decisamente per niente improvvisata, una capacità naturale di lasciar parlare la musica. Istintivamente la mia attenzione era rivolta su Pappano, non foss’altro perché non l’ho mai ascoltalto come pianista, e devo ammettere che il suo suono mi è piaciuto : energico e attento alle dinamiche, per nulla secondario o “accompagnatorio” rispetto al violoncello, il suo fluire mi è subito molto piaciuto.
Piovano, suonando un magnifico violoncello di Alessandro Gagliano del 1710, si è espresso con un suono di straordinaria dolcezza, che unitamente ad un’ottima dinamica, mi ha colpito per la sua bellezza e la sua capacità di proiettare il suono in sala.
Brahms e Rachmaninov richiedono sempre molta energia ai musicisti, non è facile in queste occasioni mantenere la giusta tensione per tutta la durata del concerto, per di più il violoncello, così come per ogni strumento ad arco, mette sempre a dura prova le capacità di intonazione, in specie se in un contesto in cui il musicista ci ha già convinto con la sua bravura, se ne esce con qualche inavvertita sbavatura.
Invece Piovano ha suonato tutto il programma con naturalezza e sicurezza, è stato bello vederlo impegnato nella musica, ha un bel modo di porsi al pubblico, anche questo contribuisce alla bellezza di un concerto.
Per contro, Pappano, abituato a vederlo sbracciarsi sul podio di S. Cecilia, non si è scomposto minimamente, certamente un gran rigore, ma non rigidezza. Come se il suono del piano risultasse lo schermo delle note proiettate dal violoncello.
Poi siamo passati a Rachmaninov, un compositore che io amo particolarmente perché qualsiasi cosa abbia composto lo si riconosce fin da subito, e in questa Sonata op.19 il pianoforte evoca atmosfere lontane venate di una certa dolente nostalgia che il violoncello non sembra avere nessuna intenzione di contraddire.
L’interpretazione Pappano-Piovano è risultata quindi molto equilibrata e sentita, ed è questa l’eccezione di cui si parla nel titolo: lasciar parlare un compositore attraverso la sua musica non è cosa facile, spesso si tende a drammatizzare e a uscire fuori dalle righe mettendoci del proprio, mentre Pappano e Piovano hanno saputo metter da parte ogni narcisismo, facendo parlare la musica. Un eccezione, appunto.
Per l’81 stagione IUC (Istituzione Universitaria dei Concerti), lo scorso sabato 25 ottobre, si è esibito presso l’Aula Magna Sapienza il pianista Fazil Say, queste le musiche in programma:
Modest Petrovič Musorgskij Quadri di un’esposizione
Fazil Say “À la carte”: selezione di brani
Ho già avuto occasione di ascoltare Fazil Say in concerto nel recente passato, e ne sono sempre rimasto colpito per la straordinaria energia e sicurezza che riusce ad animare le esecuzioni più difficili ed impegnative.
Fazil Say accenna un saluto al pubblico e senza por tempo in mezzo siede al pianoforte iniziando a suonare il primo dei “quadri” sonori dell’esposizione di Musorgskij, e lo fa in un modo che definirei travolgente, un’insolita energia che praticamente ti inchioda alla poltrona e non ti lascia pensare ad altro.
Ma quello di Fazil Say non è far voce grossa, perché il pubblico non lo conquisti con gli eccessi. Penso che Fazil Say semplicemente non abbia avuta la pretesa di conquistare nessuno, e questo credo che sia il “segreto” del suo potere di fascinazione: naturalezza e decisione, che la musica compia la magia.
Abituato alle esecuzioni sinfoniche dei Quadri di un’esposizione, mi sarei aspettato di rivedere dipinte le scene in una semplice trasposizione per piano, niente di più sbagliato: la musica richiamava certamente quella di Musorgskij, ma completamente trasfigurata, praticamente una nuova esecuzione, che a me ha restituito più l’impressione di una serie di variazioni su un tema. Cioè a dire una lunga teoria di meravigliosi esercizi di stile, che a mio parere tanto valore ha aggiunto all’opera originale, senza ombra di mortificazione. Non si tratta di una trascrizione, ma di una reinterpretazione di cui Fazil Say ne è l’autore.
C’è poi da precisare che Fazil Say si è esibito per l’intero concerto suonando a memoria, giacché non si vide ombra di spartito biancheggiare sui neri riflessi dello Steinway, e questo per me è stato sufficiente per lasciarmi trasportare dalla poesia della sua musica, perchè eseguire un brano a memoria compie ogni volta un miracolo di fascinazione a cui purtroppo non siamo più tanto abituati.
Della selezione dei vari brani “À la carte”, ho gradito molto quelli eseguiti “preparando” il pianoforte mediante l’uso della mano sinistra, producendo sonorità attutite che hanno richiamato alla mente le sonorità orientali di un Oud siriano che allegramente si confrontavano con quelle “aperte” prodotte dalla mano sinistra.
In conclusione posso solo dire di essere rimasto felicemente sorpreso non solo dall’energia straordinaria di questo grande pianista, ma pure dalla sua gestualità, che non ha mai dato l’impressione di esagerazione o artificiosità, forse è la prima volta che mi capita di assistere ad un pianista il cui gesto è veramente complementare alla sua musica, e non espressione di una forzata poesia.
Ripropongo questo articolo a distanza di 31 anni dalla sua prima pubblicazione sulla rivista dell’Associazione Liutaria Italiana avvenuta nel 1994 e poi su “The Strad” nel 1995, che rappresenta il frutto di una lunga ricerca attraverso le fonti originali ispiratemi dalla storia dell’arte italiana, tradizione pittorica in primis. A distanza di tanto tempo credo che questo articolo abbia mantenuto il suo smalto iniziale, grazie anche al fatto che la ricerca di laboratorio ha confermato praticamente in tutti gli aspetti delle mie osservazioni.
Lettera autografa originale di Antonio Stradivari datata 13 Agosto 1708 – Museo del Violino, Cremona.
Da una lettera autografa di Antonio Stradivari, il cui originale è oggi conservato presso il Museo del Violino di Cremona, ai liutai ed agli studiosi di liuteria è nota la seguente frase:
“…compatirà l’tardanza del violino che è statto la causa per la vernice per le gran Crepate che il sole non le facia aprire”.
Il M° Sacconi, ne “I ‘segreti’ di Stradivari” interpreta la frase attribuendo il ritardo della consegna di uno strumento, alla vernice, che per essere uniformemente stesa aveva bisogno del calore del sole. Ritengo tale interpretazione non perfettamente centrata sul vero motivo per cui avvenne il ritardo. Alla luce di notizie riportate su due opere scritte da Cennino Cennini e da Giorgio Vasari, rispettivamente:
“Il libro dell’Arte” (1437) e “Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri” (1550), ritengo attendibile fare un collegamento tra la tradizione liutaria e la tradizione pittorica. Chiunque abbia un minimo di conoscenza della tecnica pittorica, sa che il dipinto, una volta portato al termine, deve essere protetto da una vernice finale, e giova ricordare che la vernice finale aumenta la brillantezza e la profondità dei colori. Le tavole dipinte a tempera di cui parlano diffusamente Cennini e Vasari, dovevano essere verniciate poiché senza questo trattamento, le tempere colorate, a base di colla o d’uovo, apparivano opache e senza alcuna vivacità.
Un primo parallelo tra la frase di Stradivari e l’opera pittorica di Cennini è dato dall’uso del sole, nel capitolo CLV “Del tempo e del modo di verniciare le tavole” il Cennini scrive:
”… Adunque togli la tua vernice liquida e lucida e chiara la più che possi trovare. Metti la tua ancona al sole, e spazzale; forbila dalla polvere e da ogni fastido, quanto più puoi; e guarda che sia tempo sanza vento…. Quando hai la tavola riscaldata al sole, e medesimamente la vernice, fa che la tavola stia piana e con la mano vi distendi per tutto questa verni- ce…. Se volessi che la vernice asciugasse sanza sole, cuocila bene in prima; che la tavola l’ha molto per bene a non essere troppo sforzata dal sole “.
In questo passo si afferma che il calore del sole favorisce non solo l’uniforme distensione della vernice sulla tavola dipinta a tempera, ma anche una essiccazione più pronta e completa, senza dimenticare però che se l’esposizione fosse stata troppo intensa e prolungata, la tavola ne avrebbe risentito. È infatti di comune conoscenza che il forte calore causa deformazioni e crepe nel legno, la vernice non teme le alte temperature perché essa stessa è nata nel calore e i 70- 80°C che può raggiungere al sole è per essa una mite temperatura, la qual cosa non si può dire per un pezzo di legno o per un violino. Ricordo un musicista che avendo lasciato un suo strumento all’interno dell’auto in piena estate, lo trovò completamente in pezzi.
Secondo collegamento, Vasari nel capitolo dedicato ad Antonello da Messina narra:
“…Giovanni da Bruggia… avendo egli un giorno infra gli altri dipinto una tàvola, durato in quella molte fatiche, e condottala con una diligenza a la fine che gli piaceva, le volse dare la vernice al sole, come si costuma alle tavole, e cosi vernicata e lassatola che il sole la secasse, fu tanto violento quel caldo, o che il legname fusse mal commesso, o pur che non fusse stagionato, che ella si aperse in su le commettiture di mala sorte”.
In questo passo viene citato Jan Van Eyck (Giovanni da Bruges), da cui Antonello da Messina avrebbe tratto la sua Arte, il quale alle prese con la verniciatura di una tavola dipinta a tempera, dopo averla esposta al sole, senza troppe cautele, causò la rovina irrimediabile dell’opera, aprendosi questa, malamente sulle giunture. Interessante è notare come l’uso del sole nel trattamento delle vernici sia un’abitudine consolidata. La natura delle vernici allora usate era a base di resine e oli modificati con la cottura, come si può capire da un passo successivo di Vasari:
“… alla fine trovò che l’olio di seme di lino e quello delle noci, fra tanti che ne provò erano più sec- cativi degli altri. Questi dunque bolliti con altre sue misture, gli fecero la vernice che egli stesso desiderava…. “.
In base agli esempi che ho riportato, le “Crepate” del passo della lettera di Stradivari non sono da attribuire alla vernice bensì al legno del violino, come abbiamo visto molto più sensibile al calore della vernice stessa; quindi, la frase potrebbe essere così interpretata:
“Abbia pazienza per il ritardo con cui le consegnerò il violino, ciò è dovuto alla vernice (che ha bisogno del sole per seccare), e bisogna stare attenti a che lo strumento, causa il forte calore del sole, non abbia ad aprirsi.”
Effettivamente Cremona nel mese di agosto gode di una insolazione che normalmente fa alzare il termometro ben oltre i 30°C, come per molte altre città italiane, subisce in pieno l’influsso del clima continentale: molto freddo d’inverno e caldissimo d’estate. L’influenza del sole è così importante che nella nota corrispondenza avvenuta tra il 1637-38, tra Galileo Galilei e Padre Fulgentius Micanzio, si afferma che uno strumento non può essere portato alla perfezione senza l’aiuto del sole e con questo sarebbe stato pronto in un paio di giorni.
Da tutto ciò sembrerebbe sicuro da parte degli antichi maestri di liuteria e di pittura, l’impiego di vernici ad olio, sembra per lo meno certo che nell’agosto 1708, Stradivari avesse usato una tale vernice. Resta l’interrogativo sul perché le vernici antiche, pur presentando le caratteristiche di vernici ad olio siano al tempo stesso solubili in alcool. L’olio di lino una volta essiccato resta insensibile all’alcool, ancora di più se a questo viene aggiunta una coppale dura. Da prove da me condotte su vernici ad olio trattato in modi diversi, composte con resine solubili in alcool (es. Mastice, Dammar, Colofonia), si ottiene una vernice morbida, sensibile al calore e all’alcool.
In più l’esposizione solare attiva nell’olio di lino un processo di decomposizione della sua molecola, ed unitamente al fatto che la presenza delle resine ne abbassa il punto di solubilità, cio’ rende questo tipo di vernici attaccabili dai solventi più comuni. Per ciò che riguarda il tempo di essiccazione, esso è variabile da uno a due giorni a patto che la pellicola verniciante sia stata esposta in ambiente arieggiato, con molta luce naturale e ad una temperatura superiore ai 25°C.
È da precisare che la Colofonia, resina che possiede un elevato grado di acidità, deve essere trattata con calce idrata. Così l’olio di lino: uno dei modi per renderlo di più pronta essiccazione: può essere bollito con calce idrata (oleato di calcio), anche se l’olio di lino crudo per la sua maggiore fluidità risulta la scelta più adatta per le vernici destinate all’uso liutario. In linea di principio, non esiste una vernice ideale, Stradivari stesso durante la sua lunga e laboriosa esistenza, ne variò spesso le caratteristiche generali, a seconda del gusto del momento o delle esigenze di consegna dei propri lavori, o della reperibilità delle materie prime; non credo che abbia inventato niente di nuovo: non si può dire che la sua vernice sia più bella di quella di uno strumento ben conservato degli Amati, infatti noi parliamo di una vernice antica che da un liutaio ad un altro non muta sostanzialmente le proprie caratteristiche.
Le vernici ottocentesche e moderne segnano invece uno stacco netto dalla tradizione antica, che io credo mai completamente smarrita. Rimane da sapere cosa si intenda esattamente con il termine “vernice”, gli antichi lo usano senza aggiungere altro che ci possa chiarire qualcosa sulla sua natura.
Vernice: è un termine che deriva dal latino tardo (circa VIII sec.), nella forma di “veronix – veronicis -veronice”. Nella lingua greca moderna: “bernìki “. I vocabolari e i dizionari etimologici riconducono “vernice” al nome femminile di origine macedone “Berenìke ” (Berenice – porto la vittoria), nome di regine d’Egitto, tra cui Berenice II (III sec. A.C.) che diede il proprio nome ad una città della Cirenaica (oggi Bengasi), il cui toponimo non è ancora del tutto scomparso presso alcune popolazioni di quei luoghi. Da questa città sarebbero state importate, nella tarda antichità sostanze resinose di un tipo di vernice. Le ipotesi sono due: Berenice possedeva un porto che si affacciava sul Mediterraneo, da lìvenivano smistate per l’Occidente resine provenienti dall’Oriente.
Oppure Berenice era il luogo di produzione di una pregiata resina: è ben noto che la sandracca è ori ginaria dell’Africa Settentrionale. E’ più che probabile che per “vernice” si intendesse un prodotto resinoso caratteristico di un certo luogo. Che una resina prenda il nome dal luogo di origine o dal porto in cui viene smistata, è alla conoscenza di tutti, alcuni esempi: Colofonia (resina di Colofone, città della Lydia), Congo, Manila, ecc.
È quindi possibile che per un certo arco di tempo “vernice” non avesse ancora acquistato quel significato così ampio e generico che ha oggi. Per avere una piccola idea di come gli stessi nomi con il tempo tendano ad assumere significati diversi, basta prendere alcuni esempi: Sandracca: dal greco “Sandarakè”, di origine assira “çandra raga” (che ha lo splendore della luna), il termine indica il “realgar” (Cennini lo chiama “risalgallo”), bisolfuro di arsenico di colore giallo arancione, usato in pittura fin dalla remota antichità e noto sotto il nome di “sandaracha “. Aristotele nella”Historia Animalium” la identifica con una gomma prodotta dalle api (sandracca = propoli). Oggi con “sandracca ” si indica sia la resina del ginepro, sia quella della “Thuja articulata”. Coppale: dallospagnolo “copal” (azteco”Copalli”), si identifica la “coppaiba” (dal caraibico “Kopaiba”, albero che produce cupaheu. In latino “copaifera officinalis”), nel tempoha dato il nome a resine provenienti da ogni parte del mondo.
Tornando alla città di Berenice, è curioso notare che Galeno (129-200 D.C.), famoso medico, per indicare una qualità scelta di salnitro, usa il termine “Berenìkion “. Il salnitro veniva usato nell’antichità, nei paesi orientali, come sapone e nella imbiancatura e nella tinteggiatura dei panni, si ricavava nei deserti egiziani e persiani. Sembra verosimile, comunque, che Vernice o Berenice avesse un significato preciso fino al XV sec., resta da chiarire se con tale nome si intendesse la sandracca, la gomma di ginepro, il mastice, ecc.
Comunque sia, ognuna di queste resine, unita all’olio di lino fornisce pellicole di qualità eccellente. La storia parla chiaro: nessun segreto, solo l’abilità e il gusto del liutaio o del pittore sanno creare qualcosa di inimitabile. Creare violini e vernici è un processo artistico legato alla personalità dell’artista e all’epoca a cui appartiene. La nostra liuteria oggi ci presenta risultati tra loro assai diversi, che spesso hanno poco a che fare con l’antica tradizione.
Ritengo ciò frutto di una profonda incertezza, alimentata dalla errata convinzione che raggiungere l’Arte sia solo una questione di materiali da usare, ma in assenza di un adeguato background culturale a mio parere si rischia l’empirismo più deleterio. Lungi dall’entrare in polemica con chicchessia, mi si vogliano perdonare eventuali errori ed imprecisioni, spero che il mio modesto lavoro possa costituire uno spunto per ricerche più approfondite.
Ripubblico questo mio articolo scritto nel 1996, a seguito di quello dedicato ad una frase di una lettera di Antonio Stradivari del 1708, scritto nel 1995.
Anello di Aebutia Quarta I° sec. d.C.- Museo Barberini, Palestrina.
Siamo tutti rimasti affascinati di fronte allo spettacolo offerto dalla vernice di un violino antico: la pittoresca consunzione, la morbidezza del riflesso, la trasparenza che anche quando non è portata al massimo grado fa apparire la figurazione del legno sottostante come tridimensionale.
Alcuni hanno paragonato questo fenomeno alla mobilità dorata del mare, al tramonto, altri a lingue di fuoco (da qui i termini “marezzatura” e “fiammatura”), e così via, e non v’è dubbio che molte delle vernici antiche oggi sopravvissute suscitini in noi forti emozioni. Dopo lo stupore ci si chiede quali metodi gli antichi abbiano usato per ottenere effetti così ragguardevoli. La letteratura in proposito è ampia e a questa si rimanda il lettore.
Una domanda che possiamo porci è questa: perché le vernici antiche sono tutte più o meno colorate, non sarebbe stato più semplice stendere uno strato incolore sul legno colorato in precedenza? Per rispondere dobbiamo recuperare il senso che gli antichi avevano della luce e del suo propagarsi nei corpi. Spesso si è sentito dire che i liutai classici mettessero nelle loro vernici polvere d’oro o di gemme preziose, aldilà dell’incongruenza di tale affermazione appare chiara l’esigenza di voler dare allo strumento e alla vernice la stessa capacità dei gioielli di rifrangere la luce.
Benvenuto Cellini, orafo fiorentino (1500-1571), era maestro nel valorizzare le gemme. Nel suo trattato sull’oreficeria possiamo cogliere importanti informazioni:
“… Era questo Rubino molto grosso e tanto nitido e fulgente che tutte le foglie che sotto gli erano poste lo facevano in tal guisa lampeggiare, che egli quasi si rassomigliava al Girasole o all’Occhiogatta; …”
Nell’oreficeria l’esigenza era ed è ancora, quella di valorizzare la pietra preziosa esaltandone il volume e il colore. In passato venivano utilizzate sottili lamine d’oro da porre sul fondo di un castone prima di fissarvi la gemma, tanto era importante questa operazione che spesso vi si ricorreva allo scopo di nobilitare in modo fittizio pietre di mediocre valore:
“… Diciamo adunque che vi sono alcuni Rubini Indiani di tanto poco colore quanto immaginar si pos-sa, e a me è occorso vedere uno di tali Rubini nettissimo, al quale da uno di questi falsificatori era stato Unto il fondo con un poco di Sangue di Drago, il quale e uno stucco fatto di gomme che si liquefanno al fuoco, e poi l’haveva legato, e faceva tanta bella mostra che ciascuno l’havrebbe valuto dieci Scudi…”
Nel ‘500 queste falsificazioni erano proibite, era permesso però l’uso di artifici che sfruttassero a fondo le capacità naturali delle gemme di rifrangere la luce. L’intento era di far sì che la luce penetrando la pietra si riflettesse sulla lamina d’oro posta sul fondo per poi ritornare indietro creando riflessi di diversi colori. Lo stesso fenomeno avviene per le vernici antiche. Il loro colore e volume vengono infatti esaltati da quello che appare essere un “fondo dorato”.
Da qui l’importanza della finitura del legno prima della verniciatura, quella di non alterare le caratteristiche di lucentezza e cangiabilità del legno stesso. La preparazione non doveva interferire con questa esigenza estetica, altresì doveva garantire impermeabilità del legno alla vernice.
Quanto per Cellini e probabilmente anche per i liutai antichi questo “meccanismo” fosse importante è testimoniato dal seguente brano:
“… Dovrà adunque il pratico orefice postosi la diversità delle dette foglie avanti pigliare il Rubino con alquanto di cera nera che sia.mediocremente soda e appuntata, con la qual punta piglierà il detto Rubino per uno dei suoi canti appiccandovelo; indi metterà il Rubino hor sopra questa hor sopra quella foglia, fin tanto che per lo mezzo del suo giudicio, egli sia fatto acorto di quella che s’affaccia e convenga col suo Rubino… “
La foto del bellissimo anello di Aebutia Quarta del I° d.C. che ho avuto opportunità di visionare più volte presso il museo archeologico di Palestrina , mostra in modo evidente come i princìpi seguiti da Cellini abbiano in realtà radici antichissime, cioè a dire che già in epoca romana si usava “giocare” con la luce attraverso le trasparenze delle pietre dure: in questo caso un cristallo di rocca di forma lenticolare incastonato su un anello, al cui fondo una minuscola scultura d’oro ottenuta per cera persa ritraente il figlio di Aebutia Quarta defunto precocemente, il tutto distanziato in modo ottimale al fine di evidenziarne la figura con in più un notevole effetto tridimensionale, praticamente un ologramma capace di “osservarti” da qualunque angolo lo si guardi.
Le foglie d’oro erano di diversa natura e colore, Cellini ne cita quattro ed erano tutte leghe con percentuali variabili di Oro, Argento e Rame. L’indicazione è valida anche per i liutai: presi diversi campioni di acero e di abete e condotti ad una diligente finitura, vi si applicheranno le diverse preparazioni sulle quali stendere la vernice, dopodiché si giudicherà quale campione risulterà il più idoneo ai fini del risultato estetico, alla luce degli esempi antichi.
La vernice che appare essere più valida ai nostri bisogni è quella composta da olio di lino e resine morbide, a puro titolo di esempio cito due eccellenti formulazioni: quella di Auguste Tolbecque e di Lapo Casini.
Il motivo risiede nel fatto che l’olio di lino possiede un’indice di rifrazione molto elevato che non accenna a diminuire nemmeno in presenza di forti colorazioni; ciò non toglie comunque che non si possano ottenere ottimi risultati anche con vernici ad alcool o all’essenza.
Violino Rampini 2025
L’esempio di Benvenuto Cellini è illuminante; lo studio delle arti estranee alla liuteria è di vitale importanza per la individuazione di procedimenti scomparsi. Positivo è che la liuteria classica è un’arte non antichissima e che prende le mosse da arti meglio conosciute e con lunghissime tradizioni.
Per quanto riguarda la preparazione del legno, allo stato attuale non vi sono nuove e significative acquisizioni che ci permettano riscontri obiettivi con il passato, ma è possibile fare alcune considerazioni: tolta la possibilità che questa abbia proprietà miracolose sul suono, l’unica funzione certa è quella di impedire alla vernice di penetrare nei pori del legno (specie se è ad olio), e di far parte di quel “fondo dorato” e riflettente ormai ben impresso nell’immaginario collettivo dei liutai e dei musicisti.
Il legno dei violini antichi non appare quasi mai impregnato con sostanze chimiche di natura alcalina o acida, perché, se ciò fosse avvenuto, il legno avrebbe sì accentuato la propria figurazione, ma avrebbe perso il cangiante. Al contrario gli strumenti originali ben conservati mostrano integra la loro caratteristica “tridimensionalità”.
I materiali ritenuti attendibili sono ben conosciuti: colle proteiniche, caseina, chiara d’uovo, uniti ad eccipienti di natura calcica e silicica i quali aumentano l’efficacia impermeabilizzante del preparato. Ma il problema non è solo individuare le sostanze giuste, ma anche il giusto modo d’applicazione di esse. Osservando gli strumenti antichi è ipotizzabile che il tempo e le cure richieste dalla stesura di una buona preparazione fossero uguali o maggiori a quelli della verniciatura propriamente detta, perché il legno doveva conservare intatta la propria lucentezza.
Si prenda a titolo d’esempio, un pezzo di abete o di acero ben piallato. Si può osservare come la fibra del legno sia nettissima e brilli alla luce: È questo che deve essere conservato, che la preparazione non deve attenuare, e la vernice deve esaltare. Una buona preparazione del legno, giunta felicemente alla fine, è rivestita da uno strato di vernice di circa un decimo di millimetro. La ragione di ciò è che già lo strato è sottile, e che una vernice ad olio essicca velocemente e in profondità, specie se in tale processo vengono usati i raggi ultravioletti.
Legno di un fondo di violino “preparato” prima della verniciatura, Rampini 2023.
Un altro motivo è che una vernice ad olio “rende” molto di più rispetto ad altre e la sua apparenza lucida e grassa la fa apparire con uno stacco notevole dal fondo anche a spessori ridottissimi. Naturalmente anche qui non esistono regole ferree da seguire, lo spessore degli strati verniciati può variare a seconda dei gusti, delle scuole, ecc. come è testimoniato da violini antichi anche di uno stesso autore.
II fatto di avere solo una bella vernice che possegga una trasparenza estrema può non significare nulla, servirà tuttalpiù a far vedere meglio che si è preparato male il fondo su cui è stata stesa; al contrario, una vernice non molto limpida può dare riflessi straordinarii qualora il fondo sia stato preparato rispettando il legno. Cellini docet.
Come già scritto da Tolbecque, il famoso “fondo dorato” è anche il risultato naturale dello scorrere del tempo; il legno vecchio prende una colorazione più scura ed accentua mirabilmente la propria figurazione.
È indubbio però che sugli strumenti di Stradivari la preparazione appaia di un colore giallo-chiaro dalla apparenza opaca, questo negli strumenti ove non sia stato applicato dai restauratori, moderni e non, uno strato protettivo incolore il quale oblitera totalmente l’osservazione della stratificazione originale.
Su strumenti di Guarneri del Gesù tale strato non appare visibile; laddove la vernice è consumata il legno conserva il suo colore naturale. Ciò non vuol dire che la preparazione sia stata omessa, ma che potrebbe essere semplicemente incolore e non resistente come quella di Stradivari. Lo strato giallo che si può osservare ha una natura simile a quello della vernice, questa è una pratica comune anche ai nostri giorni, ma una cosa è la mera imitazione dei capolavori del passato, altra cosa è recuperare il senso delle cose e gestirlo con padronanza.
Cellini stesso raggiunge il suo scopo con mezzi a volte tra loro diversissimi, adeguandosi volta per volta ai materiali e alle esigenze del lavoro, mostrando una padronanza assoluta dell’arte e dei concetti. Queste sono le sue parole in proposito: “… Ma per che per mezzo della pratica si ritrovano bellissimi segreti, e s’imparano di molte destrezze cosi nell’arte, come nelle scienze…”
Bibliografia:
Benvenuto Cellini “Due Trattati” ed. Aldine 1983
Agnes Romani “Le vernici per Liuteria” Quaderni di Liut. n°8.
Lapo Casini “Alla riscoperta della vernice degli antichiliutai”. Ed. Amati 1986.
Gino Piva “L’arte del Restauro” Ed. Hoepli 1988.
Gabriele Carletti “Vernici in Liuteria” Ed. Zanibon 1984.
Simone F. Sacconi I segreti di Stradivari” Ed. Libreria del Convegno 1972
Lo scorso 13 Maggio si è esibita presso l’Aula Magna della Sapienza, per l’80esima stagione della I.U.C (Istituzione Universitaria dei Concerti) la violinista sud coreana-tedesca Clara-Jumi Kang, che io ho ascoltato per la prima volta in questa occasione. Questo il programma della serata:
J.S. Bach: Sonata n. 1 BWV 1001
J.S. Bach: Partita n. 2 BWV1004
Eugène Ysaÿe: Sonata n. 3
Eugène Ysaÿe: Sonata n. 5
Eugène Ysaÿe: Sonata n. 6
Nathan Milstein: Paganiniana
Confesso che sui musicisti di origine orientale, pur stimando il loro straordinario virtuosismo, sono un po’ prevenuto per via di una tecnica spesso fine a sé stessa a tutto scapito di una freschezza e originalità di interpretazione.
E’ pur vero che il curriculum della Kang è di altissimo livello, ma il musicista è sempre chiamato a dimostrare il proprio valore “hic et nunc”, questa per me è la vera croce e delizia di chi abita il mondo dell’arte e cerca di farcene partecipi.
La Kang si è esibita, nella sua longilinea eleganza impreziosita da un bel vestito nero decorato con motivi orientali, con un violino di Antonio Stradivari del 1702 “Thunis”, a me fino ad oggi sconosciuto, ma che mi ha immediatamente riportato al celebre “ex Conte De Fontana” dello stesso anno suonato da David Ojstrach e Mariana Sirbu, quest’ultima ascoltata dal vivo con il Trio di Milano moltissimi anni fa. Uno strumento di bellezza unica in tutti i sensi, meraviglioso da vedere e da sentire.
Tuttavia, già dalle prime note dell’Adagio della prima sonata di Bach, lo Stradivari di Kang, ha rivelato un suono diverso da quello che mi sarei aspettato: piuttosto aggressivo e con una seconda corda che mi è apparsa chiusa, per non dire nasale. E’ vero che quando si parla di grandi violini di grandi liutai si è abituati, forse male, ad aspettarsi il grande suono italiano ampio e senza incertezze su tutti i registri, ma bisogna anche tenere presente che non tutti gli Stradivari o i Guarneri del Gesù siano pervenuti fino a noi in uno stato di conservazione perfetto. O anche semplicemente non basta avere in comune un anno di costruzione e autore perché due strumenti possano somigliarsi nel suono e nelle prestazioni.
Tuttavia, lo Stradivari della Kang ha dimostrato una notevole ricchezza di armonici e anche una capacità di sussurrare i “piano” in modo definito ed estremamente pulito, cosa che con Bach non si finisce mai di apprezzare. Il suono del violino è quello prodotto dal violinista, non quello del violino stesso.
Il Bach della Kang si è dimostrato più che apprezzabile, anche se non stimo molto la filologia di questi ultimi anni caratterizzata da respiri brevi e “arcate a morire“, non ha fatto rimpiangere Milstein e Szeryng; e considerando che questo bellissimo Stradivari del 1702 sia stato concepito in pieno barocco e quindi con un suono diversissimo dall’attuale, avere corde in fibra di nylon e una prima corda in acciaio ha comunque consentito un ascolto ottimo e dignitoso.
Per quanto riguarda Ysaÿe e Milstein, per la Kang la strada è risultata essere completamente in discesa perché ha dimostrato una sicurezza davvero invidiabile, laddove le doti virtuosistiche possono comunque esprimersi senza per questo nascondere deficienze di interpretazione. La pulizia del suono di Clara-Jumi Kang è stata davvero affascinante e credo che la “Paganiniana” sarebbe stata molto gradita dallo stesso Milstein, e forse avrebbe invitato questa brava e bella violinista a prendersi perfino qualche libertà in più.
La Kang ha dimostrato doti non comuni di concentrazione e una padronanza del suono pressoché assoluta, sono rimasto colpito dal suo pallore e dalla sua compostezza, così pure dai sorrisi appena accennati nei confronti del pubblico. Eleganza e distacco, un’aura di sofferente freddezza che mi hanno ricordato “la principessa di neve” di una perduta fiaba, il contrasto fortissimo tra un cuore caldo ed una superficie gelida e sofferente.
Ebbene, al termine del concerto, stupito perché la Kang si è subito ritirata senza concedere alcun bis, mi è stato comunicato che le circa due ore di esibizione sono state eseguite in preda a forti dolori dovuti ad un colpo d’aria originatosi dall’impianto di condizionamento dell’aereo che la portava in Italia. Questo è il cuore della principessa nella neve.
Testo e fotografie di Claudio Rampini
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