Riflessioni su una frase di Antonio Stradivari.

Da una lettera del 13 Agosto 1708

Lettera autografa originale di Antonio Stradivari datata 13 Agosto 1708 – Museo del Violino, Cremona.


Da una lettera autografa di Antonio Stradivari, il cui originale è oggi conservato presso il Museo del Violino di Cremona, ai liutai ed agli studiosi di liuteria è nota la seguente frase:


“…compatirà l’tardanza del violino
che è statto la causa per la vernice
per le gran Crepate che il sole non le
facia aprire”.


Il M° Sacconi, ne “I ‘segreti’ di Stradivari” interpreta la frase attribuendo il ritardo della consegna di uno strumento, alla vernice, che per essere uniformemente stesa aveva bisogno del calore del sole. Ritengo tale interpretazione non perfettamente centrata sul vero motivo per cui avvenne il ritardo. Alla luce di notizie riportate su due opere scritte da Cennino Cennini e da Giorgio Vasari, rispettivamente:

“Il libro dell’Arte” (1437) e “Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri” (1550), ritengo attendibile fare un collegamento tra la tradizione liutaria e la tradizione pittorica. Chiunque abbia un minimo di conoscenza della tecnica pittorica, sa che il dipinto, una volta portato al termine, deve essere protetto da una vernice finale, e giova ricordare che la vernice finale aumenta la brillantezza e la profondità dei colori. Le tavole dipinte a tempera di cui parlano diffusamente Cennini e Vasari, dovevano essere verniciate poiché senza questo trattamento, le tempere colorate, a base di colla o d’uovo, apparivano opache e senza alcuna vivacità.

Un primo parallelo tra la frase di Stradivari e l’opera pittorica di Cennini è dato dall’uso del sole, nel capitolo CLV “Del tempo e del modo di verniciare le tavole” il Cennini scrive:


”… Adunque togli la tua vernice
liquida e lucida e chiara la più
che possi trovare. Metti la tua
ancona al sole, e spazzale; forbila
dalla polvere e da ogni fastido,
quanto più puoi; e guarda che sia
tempo sanza vento…. Quando hai la
tavola riscaldata al sole, e
medesimamente la vernice, fa che
la tavola stia piana e con la mano
vi distendi per tutto questa verni-
ce…. Se volessi che la vernice
asciugasse sanza sole, cuocila
bene in prima; che la tavola l’ha
molto per bene a non essere troppo
sforzata dal sole “.


In questo passo si afferma che il calore del sole favorisce non solo l’uniforme distensione della vernice sulla tavola dipinta a tempera, ma anche una essiccazione più pronta e completa, senza dimenticare però che se l’esposizione fosse stata troppo intensa e prolungata, la tavola ne avrebbe risentito. È infatti di comune conoscenza
che il forte calore causa deformazioni e crepe nel legno, la vernice non teme le alte temperature perché essa stessa è nata nel calore e i 70- 80°C che può raggiungere al sole è per essa una mite temperatura, la qual cosa non si può dire per un pezzo di legno o per un violino. Ricordo un musicista che avendo lasciato un suo strumento all’interno dell’auto in piena estate, lo trovò completamente in pezzi.

Secondo collegamento, Vasari nel capitolo dedicato ad Antonello da Messina narra:


“…Giovanni da Bruggia…
avendo egli un giorno infra gli
altri dipinto una tàvola, durato in
quella molte fatiche, e
condottala con una diligenza a la
fine che gli piaceva, le volse dare
la vernice al sole, come si costuma
alle tavole, e cosi vernicata e
lassatola che il sole la secasse, fu
tanto violento quel caldo, o che il
legname fusse mal commesso, o
pur che non fusse stagionato, che
ella si aperse in su le
commettiture di mala sorte”.


In questo passo viene citato Jan Van Eyck (Giovanni da Bruges), da cui Antonello da Messina avrebbe tratto la sua Arte, il quale alle prese con la verniciatura di una tavola dipinta a tempera, dopo averla esposta al sole, senza troppe cautele, causò la rovina
irrimediabile dell’opera, aprendosi questa, malamente sulle giunture. Interessante è notare come l’uso del sole nel trattamento delle vernici sia un’abitudine consolidata. La natura
delle vernici allora usate era a base di resine e oli modificati con la cottura, come si può capire da un passo successivo di Vasari:


“… alla fine trovò che l’olio di
seme di lino e quello delle noci, fra
tanti che ne provò erano più sec-
cativi degli altri.
Questi dunque bolliti con altre sue
misture, gli fecero la vernice che
egli stesso desiderava…. “.


In base agli esempi che ho riportato, le “Crepate” del passo della lettera di Stradivari non sono da attribuire alla vernice bensì al legno del violino, come abbiamo visto molto più sensibile al calore della vernice stessa; quindi, la frase potrebbe essere così interpretata:


“Abbia pazienza per il ritardo
con cui le consegnerò il violino,
ciò è dovuto alla vernice (che ha
bisogno del sole per seccare), e
bisogna stare attenti a che lo
strumento, causa il forte calore
del sole, non abbia ad aprirsi.”


Effettivamente Cremona nel mese di agosto gode di una insolazione che normalmente fa alzare il termometro ben oltre i 30°C, come per molte altre città italiane, subisce in pieno l’influsso del clima continentale: molto freddo d’inverno e caldissimo d’estate. L’influenza del sole è così importante che nella nota corrispondenza avvenuta tra il 1637-38, tra Galileo Galilei e Padre Fulgentius Micanzio, si afferma che uno strumento non può essere portato alla perfezione senza l’aiuto del sole e con questo sarebbe stato pronto in un paio di giorni.


Da tutto ciò sembrerebbe sicuro da parte degli antichi maestri di liuteria e di pittura, l’impiego di vernici ad olio, sembra per lo meno certo che nell’agosto 1708, Stradivari avesse usato una tale vernice. Resta l’interrogativo sul perché le vernici antiche, pur presentando le caratteristiche di vernici ad olio siano al tempo stesso solubili in alcool.
L’olio di lino una volta essiccato resta insensibile all’alcool, ancora di più se a questo viene aggiunta una coppale dura. Da prove da me condotte su vernici ad olio trattato in modi diversi, composte con resine solubili in alcool (es. Mastice, Dammar, Colofonia), si ottiene una vernice morbida, sensibile al calore e all’alcool.

In più l’esposizione solare attiva nell’olio di lino un processo di decomposizione della sua molecola, ed unitamente al fatto che la presenza delle resine ne abbassa il punto di solubilità, cio’ rende questo tipo di vernici attaccabili dai solventi più comuni. Per ciò che riguarda il tempo di essiccazione, esso è variabile da uno a due giorni a patto che la pellicola verniciante sia stata esposta in ambiente arieggiato, con molta luce naturale e ad una temperatura superiore ai 25°C.

È da precisare che la Colofonia, resina che possiede un elevato grado di acidità, deve essere trattata con calce idrata. Così l’olio di lino: uno dei modi per renderlo di più pronta essiccazione: può essere bollito con calce idrata (oleato di calcio), anche se l’olio di lino crudo per la sua maggiore fluidità risulta la scelta più adatta per le vernici destinate all’uso liutario. In linea di principio, non esiste una vernice ideale, Stradivari stesso durante la sua lunga e laboriosa esistenza, ne variò spesso le caratteristiche generali, a seconda del gusto del momento o delle esigenze di consegna dei propri lavori, o della reperibilità delle materie prime; non credo che abbia inventato niente di nuovo: non si può dire che la sua vernice sia
più bella di quella di uno strumento ben conservato degli Amati, infatti noi parliamo di una vernice antica che da un liutaio ad un altro non muta sostanzialmente le proprie caratteristiche.

Le vernici ottocentesche e moderne segnano invece uno stacco netto dalla tradizione antica, che io credo mai completamente smarrita. Rimane da sapere cosa si intenda esattamente con il termine “vernice”, gli antichi lo usano senza aggiungere altro che ci possa chiarire qualcosa sulla sua natura.

Vernice: è un termine che deriva dal latino tardo (circa VIII sec.), nella forma di “veronix – veronicis -veronice”.
Nella lingua greca moderna: “bernìki “.
I vocabolari e i dizionari etimologici riconducono “vernice” al nome femminile di origine macedone “Berenìke ” (Berenice – porto la vittoria), nome di regine d’Egitto, tra cui Berenice II (III sec. A.C.) che diede il proprio nome ad una città della Cirenaica (oggi Bengasi), il cui toponimo non è ancora del tutto scomparso presso alcune popolazioni di quei luoghi. Da questa città sarebbero state importate, nella tarda antichità sostanze resinose di un tipo di vernice. Le ipotesi sono due: Berenice possedeva un porto che si affacciava sul Mediterraneo, da lìvenivano smistate per l’Occidente resine provenienti dall’Oriente.

Oppure Berenice era il luogo di produzione di una pregiata resina: è ben noto che la sandracca è ori ginaria dell’Africa Settentrionale. E’ più che probabile che per “vernice” si intendesse un prodotto resinoso caratteristico di un certo luogo. Che una resina prenda il nome dal luogo di origine o dal porto in cui viene smistata, è alla conoscenza di tutti, alcuni esempi: Colofonia (resina di Colofone, città della Lydia), Congo, Manila, ecc.

È quindi possibile che per un certo arco di tempo “vernice” non avesse ancora acquistato quel significato così ampio e generico che ha oggi. Per avere una piccola idea di come gli stessi nomi con il tempo tendano ad assumere significati diversi, basta prendere alcuni esempi: Sandracca: dal greco “Sandarakè”, di origine assira “çandra raga” (che ha lo splendore della luna), il termine indica il “realgar” (Cennini lo chiama “risalgallo”), bisolfuro di arsenico di colore giallo arancione, usato in pittura fin dalla remota antichità e noto sotto il nome di “sandaracha “. Aristotele nella”Historia Animalium” la identifica con una gomma prodotta dalle api (sandracca = propoli). Oggi con “sandracca ” si indica sia la resina del ginepro, sia quella della “Thuja articulata”. Coppale: dallospagnolo “copal” (azteco”Copalli”), si identifica la “coppaiba” (dal caraibico “Kopaiba”, albero che produce cupaheu. In latino “copaifera officinalis”), nel tempoha dato il nome a resine provenienti da ogni parte del mondo.

Tornando alla città di Berenice, è curioso notare che Galeno (129-200 D.C.), famoso medico, per indicare una qualità scelta di salnitro, usa il termine “Berenìkion “. Il salnitro veniva usato nell’antichità, nei paesi orientali, come sapone e nella imbiancatura e nella tinteggiatura dei panni, si ricavava nei deserti egiziani e persiani. Sembra verosimile, comunque, che Vernice o Berenice avesse un significato preciso fino al XV sec., resta da chiarire se con tale nome si intendesse la sandracca, la gomma di ginepro, il mastice, ecc.

Comunque sia, ognuna di queste resine, unita all’olio di lino fornisce pellicole di qualità eccellente. La storia parla chiaro: nessun segreto, solo l’abilità e il gusto del liutaio o del pittore sanno creare qualcosa di inimitabile. Creare violini e vernici è un processo artistico legato alla personalità dell’artista e all’epoca a cui appartiene. La nostra liuteria oggi ci presenta risultati tra loro assai diversi, che spesso hanno poco a che fare con l’antica tradizione.

Ritengo ciò frutto di una profonda incertezza, alimentata dalla errata convinzione che raggiungere l’Arte sia solo una questione di materiali da usare, ma in assenza di un adeguato background culturale a mio parere si rischia l’empirismo più deleterio. Lungi dall’entrare in polemica con chicchessia, mi si vogliano perdonare eventuali errori ed imprecisioni, spero che il mio modesto lavoro possa costituire uno spunto per ricerche più approfondite.

Bibliografia:

  • Cennino Cennini, Il Libro
  • dell’Arte, Neri Pozza ed. 1982.
  • Giorgio Vasari, Le Vite de’ più
  • Eccellenti Architetti, Pittori, et
  • Scultori Italiani, da Cimabue
  • Insino a’ Tempi Nostri, F.lli Melita
  • ed. 1991 vol.2.
  • Simone Fernando Sacconi, I
  • ‘segreti’ di Stradivari, Libreria del
  • Convegno, 1979).
  • WE., A.F. and A.E. Hill,
  • Stradivari: His Life and Work
  • (New York: Dover, 1963).

Claudio Rampini 1994

Benvenuto Cellini, Antonio Stradivari e i segreti della luce.

Ripubblico questo mio articolo scritto nel 1996, a seguito di quello dedicato ad una frase di una lettera di Antonio Stradivari del 170, scritto nel 1995.

Siamo tutti rimasti affascinati di fronte allo spetta­colo offerto dalla vernice di un violino antico: la pitto­resca consunzione, la morbidezza del riflesso, la tra­sparenza che anche quando non è portata al massimo grado fa apparire la figurazione del legno sottostante come tridimensionale.

Alcuni hanno paragonato questo fenomeno alla mobilità dorata del mare, al tramonto, altri a lingue di fuoco (da qui i termini “marezzatura” e “fiammatura”), e così via, e non v’è dubbio che molte delle vernici antiche oggi sopravvissute suscitini in noi forti emozioni. Dopo lo stupore ci si chiede quali metodi gli antichi abbiano usato per ottenere effetti così ragguardevoli. La letteratura in proposito è ampia e a questa si ri­manda il lettore.

Una domanda che possiamo porci è questa: perché le vernici antiche sono tutte più o meno colorate, non sarebbe stato più semplice stendere uno strato incolore sul legno colorato in precedenza? Per rispondere dobbiamo recuperare il senso che gli antichi avevano della luce e del suo propagarsi nei corpi. Spesso si è sentito dire che i liutai classici mettes­sero nelle loro vernici polvere d’oro o di gemme pre­ziose, aldilà dell’incongruenza di tale affermazione appare chiara l’esigenza di voler dare allo strumento e alla vernice la stessa capacità dei gioielli di rifrangere la luce.

Benvenuto Cellini, orafo fiorentino (1500-1571), era maestro nel valorizzare le gemme. Nel suo trattato sul­l’oreficeria possiamo cogliere importanti informazio­ni:

“… Era questo Rubino molto grosso e tanto nitido e fulgente che tutte le foglie che sotto gli erano poste lo facevano in tal guisa lampeggiare, che egli quasi si rassomigliava al Girasole o all’Occhiogatta; …”

Nell’oreficeria l’esigenza era ed è ancora, quella di valorizzare la pietra preziosa esaltandone il volume e il colore. In passato venivano utilizzate sottili lamine d’oro da porre sul fondo di un castone prima di fissarvi la gemma, tanto era importante questa operazione che spesso vi si ricorreva allo scopo di nobilitare in modo fittizio pietre di mediocre valore:

“… Diciamo adunque che vi sono alcuni Rubini Indiani di tanto poco colore quanto immaginar si pos-sa, e a me è occorso vedere uno di tali Rubini nettissi­mo, al quale da uno di questi falsificatori era stato Unto il fondo con un poco di Sangue di Drago, il quale e uno stucco fatto di gomme che si liquefanno al fuoco, e poi l’haveva legato, e faceva tanta bella mostra che ciascuno l’havrebbe valuto dieci Scudi…”

Nel ‘500 queste falsificazioni erano proibite, era permesso però l’uso di artifici che sfruttassero a fondo le capacità naturali delle gemme di rifrangere la luce. L’intento era di far sì che la luce penetrando la pietra si riflettesse sulla lamina d’oro posta sul fondo per poi ritornare indietro creando riflessi di diversi colori. Lo stesso fenomeno avviene per le vernici antiche. Il loro colore e volume vengono infatti esaltati da quello che appare essere un “fondo dorato”.

Da qui l’importanza della finitura del legno prima della verniciatura, quella di non alterare le caratteristi­che di lucentezza e cangiabilità del legno stesso. La preparazione non doveva interferire con questa esigenza estetica, altresì doveva garantire impermeabilità del legno alla vernice.

Quanto per Cellini e probabilmente anche per i liutai antichi questo “meccanismo” fosse importante è testimoniato dal seguente brano:

“… Dovrà adunque il pratico orefice postosi la diversità delle dette foglie avanti pigliare il Rubino con alquanto di cera nera che sia.mediocremente soda e appuntata, con la qual punta piglierà il detto Rubino per uno dei suoi canti appiccandovelo; indi metterà il Rubino hor sopra que­sta hor sopra quella foglia, fin tanto che per lo mezzo del suo giudicio, egli sia fatto acorto di quella che s’affaccia e convenga col suo Rubino… “

Le foglie d’oro erano di diversa natura e colore, Cellini ne cita quattro ed erano tutte leghe con percentuali variabili di Oro, Argento e Rame. L’indicazione è valida anche per i liutai: presi diversi campioni di acero e di abete e condotti ad una diligente finitura, vi si applicheranno le diverse pre­parazioni sulle quali stendere la vernice, dopodiché si giudicherà quale campione risulterà il più idoneo ai fini del risultato estetico, alla luce degli esempi anti­chi.

La vernice che appare essere più valida ai nostri bisogni è quella composta da olio di lino e resine morbide, a puro titolo di esempio cito due eccellenti formulazioni: quella di Auguste Tolbecque e di Lapo Casini.

Il motivo risiede nel fatto che l’olio di lino possiede un’in­dice di rifrazione molto elevato che non accenna a diminuire nemmeno in presenza di forti colorazioni; ciò non toglie comunque che non si possano ottenere ottimi risultati anche con vernici ad alcool o all’essen­za.

L’esempio di Benvenuto Cellini è illuminante; lo studio delle arti estranee alla liuteria è di vitale impor­tanza per la individuazione di procedimenti scompar­si. Positivo è che la liuteria classica è un’arte non anti­chissima e che prende le mosse da arti meglio cono­sciute e con lunghissime tradizioni.

Per quanto riguarda la preparazione del legno, allo stato attuale non vi sono nuove e significative acquisizioni che ci permettano riscontri obiettivi con il passato, ma è possibile fare alcune considerazioni: tolta la possibilità che questa abbia proprietà mira­colose sul suono, l’unica funzione certa è quella di impedire alla vernice di penetrare nei pori del legno (specie se è ad olio), e di far parte di quel “fondo dorato” e riflettente ormai ben impresso nell’immagi­nario collettivo dei liutai e dei musicisti.

Il legno dei violini antichi non appare quasi mai impregnato con sostanze chimiche di natura alcalina o acida, perché, se ciò fosse avvenuto, il legno avreb­be sì accentuato la propria figurazione, ma avrebbe perso il cangiante. Al contrario gli strumenti originali ben conservati mostrano integra la loro caratteristica “tridimensionalità”.

I materiali ritenuti attendibili sono ben conosciuti: colle proteiniche, caseina, chiara d’uovo, uniti ad eccipienti di natura calcica e silicica i quali aumenta­no l’efficacia impermeabilizzante del preparato. Ma il problema non è solo individuare le sostanze giuste, ma anche il giusto modo d’applicazione di esse. Osservando gli strumenti antichi è ipotizzabile che il tempo e le cure richieste dalla stesura di una buona preparazione fossero uguali o maggiori a quelli della verniciatura propriamente detta, perché il legno do­veva conservare intatta la propria lucentezza.

Si prenda a titolo d’esempio, un pezzo di abete o di acero ben piallato. Si può osservare come la fibra del legno sia nettissima e brilli alla luce: È questo che deve essere conservato, che la preparazione non deve attenuare, e la vernice deve esaltare. Una buona preparazione del legno, giunta felice­mente alla fine, è rivestita da uno strato di vernice di circa un decimo di millimetro. La ragione di ciò è che già lo strato è sottile, e che una vernice ad olio essicca velocemente e in profondità, specie se in tale proces­so vengono usati i raggi ultravioletti.

Un altro motivo è che una vernice ad olio “rende” molto di più rispetto ad altre e la sua apparenza luci­da e grassa la fa apparire con uno stacco notevole dal fondo anche a spessori ridottissimi. Naturalmente anche qui non esistono regole fer­ree da seguire, lo spessore degli strati verniciati può variare a seconda dei gusti, delle scuole, ecc. come è testimoniato da violini antichi anche di uno stesso autore.

II fatto di avere solo una bella vernice che posseg­ga una trasparenza estrema può non significare nulla, servirà tuttalpiù a far vedere meglio che si è prepara­to male il fondo su cui è stata stesa; al contrario, una vernice non molto limpida può dare riflessi straordinarii qualora il fondo sia stato preparato rispettando il legno. Cellini docet.

Come già scritto da Tolbecque, il famoso “fondo dorato” è anche il risultato naturale dello scorrere del tempo; il legno vecchio prende una colorazione più scura ed accentua mirabilmente la propria figurazione.

È indubbio però che sugli strumenti di Stradivari la preparazione appaia di un colore giallo-chiaro dalla apparenza opaca, questo negli strumenti ove non sia stato applicato dai restauratori, moderni e non, uno strato protettivo incolore il quale oblitera totalmente l’osservazione della stratificazione originale.

Su strumenti di Guarneri del Gesù tale strato non appare visibile; laddove la vernice è consumata il le­gno conserva il suo colore naturale. Ciò non vuol dire che la preparazione sia stata omessa, ma che potreb­be essere semplicemente incolore e non resistente come quella di Stradivari. Lo strato giallo che si può osservare ha una natura simile a quello della vernice, questa è una pratica comune anche ai nostri giorni, ma una cosa è la mera imitazione dei capolavori del passato, altra cosa è recuperare il senso delle cose e gestirlo con padronanza.

Cellini stesso raggiunge il suo scopo con mezzi a volte tra loro diversissimi, adeguandosi volta per volta ai materiali e alle esigenze del lavoro, mostrando una padronanza assoluta dell’arte e dei concetti. Queste sono le sue parole in proposito: “… Ma per che per mezzo della pratica si ritrovano bellissimi segreti, e s’im­parano di molte destrezze cosi nell’arte, come nelle scienze…”

Bibliografia:

  • Benvenuto Cellini “Due Trattati” ed. Aldine 1983
  • Agnes Romani “Le vernici per Liuteria” Quaderni di Liut. n°8.
  • Lapo Casini “Alla riscoperta della vernice degli antichi liutai”. Ed. Amati 1986.
  • Gino Piva “L’arte del Restauro” Ed. Hoepli 1988.
  • Gabriele Carletti “Vernici in Liuteria” Ed. Zanibon 1984.
  • Simone F. Sacconi I segreti di Stradivari” Ed. Libreria del Convegno 1972
Claudio Rampini 1996

Uno Stradivari per Clara-Jumi Kang

Lo scorso 13 Maggio si è esibita presso l’Aula Magna della Sapienza, per l’80esima stagione della I.U.C (Istituzione Universitaria dei Concerti) la violinista sud coreana-tedesca Clara-Jumi Kang, che io ho ascoltato per la prima volta in questa occasione. Questo il programma della serata:

  • J.S. Bach: Sonata n. 1 BWV 1001
  • J.S. Bach: Partita n. 2 BWV1004
  • Eugène Ysaÿe: Sonata n. 3
  • Eugène Ysaÿe: Sonata n. 5
  • Eugène Ysaÿe: Sonata n. 6
  • Nathan Milstein: Paganiniana

Confesso che sui musicisti di origine orientale, pur stimando il loro straordinario virtuosismo, sono un po’ prevenuto per via di una tecnica spesso fine a sé stessa a tutto scapito di una freschezza e originalità di interpretazione.

E’ pur vero che il curriculum della Kang è di altissimo livello, ma il musicista è sempre chiamato a dimostrare il proprio valore “hic et nunc”, questa per me è la vera croce e delizia di chi abita il mondo dell’arte e cerca di farcene partecipi.

La Kang si è esibita, nella sua longilinea eleganza impreziosita da un bel vestito nero decorato con motivi orientali, con un violino di Antonio Stradivari del 1702 “Thunis”, a me fino ad oggi sconosciuto, ma che mi ha immediatamente riportato al celebre “ex Conte De Fontana” dello stesso anno suonato da David Ojstrach e Mariana Sirbu, quest’ultima ascoltata dal vivo con il Trio di Milano moltissimi anni fa. Uno strumento di bellezza unica in tutti i sensi, meraviglioso da vedere e da sentire.

Tuttavia, già dalle prime note dell’Adagio della prima sonata di Bach, lo Stradivari di Kang, ha rivelato un suono diverso da quello che mi sarei aspettato: piuttosto aggressivo e con una seconda corda che mi è apparsa chiusa, per non dire nasale. E’ vero che quando si parla di grandi violini di grandi liutai si è abituati, forse male, ad aspettarsi il grande suono italiano ampio e senza incertezze su tutti i registri, ma bisogna anche tenere presente che non tutti gli Stradivari o i Guarneri del Gesù siano pervenuti fino a noi in uno stato di conservazione perfetto. O anche semplicemente non basta avere in comune un anno di costruzione e autore perché due strumenti possano somigliarsi nel suono e nelle prestazioni.

Tuttavia, lo Stradivari della Kang ha dimostrato una notevole ricchezza di armonici e anche una capacità di sussurrare i “piano” in modo definito ed estremamente pulito, cosa che con Bach non si finisce mai di apprezzare. Il suono del violino è quello prodotto dal violinista, non quello del violino stesso.

Il Bach della Kang si è dimostrato più che apprezzabile, anche se non stimo molto la filologia di questi ultimi anni caratterizzata da respiri brevi e “arcate a morire“, non ha fatto rimpiangere Milstein e Szeryng; e considerando che questo bellissimo Stradivari del 1702 sia stato concepito in pieno barocco e quindi con un suono diversissimo dall’attuale, avere corde in fibra di nylon e una prima corda in acciaio ha comunque consentito un ascolto ottimo e dignitoso.

Per quanto riguarda Ysaÿe e Milstein, per la Kang la strada è risultata essere completamente in discesa perché ha dimostrato una sicurezza davvero invidiabile, laddove le doti virtuosistiche possono comunque esprimersi senza per questo nascondere deficienze di interpretazione. La pulizia del suono di Clara-Jumi Kang è stata davvero affascinante e credo che la “Paganiniana” sarebbe stata molto gradita dallo stesso Milstein, e forse avrebbe invitato questa brava e bella violinista a prendersi perfino qualche libertà in più.

La Kang ha dimostrato doti non comuni di concentrazione e una padronanza del suono pressoché assoluta, sono rimasto colpito dal suo pallore e dalla sua compostezza, così pure dai sorrisi appena accennati nei confronti del pubblico. Eleganza e distacco, un’aura di sofferente freddezza che mi hanno ricordato “la principessa di neve” di una perduta fiaba, il contrasto fortissimo tra un cuore caldo ed una superficie gelida e sofferente.

Ebbene, al termine del concerto, stupito perché la Kang si è subito ritirata senza concedere alcun bis, mi è stato comunicato che le circa due ore di esibizione sono state eseguite in preda a forti dolori dovuti ad un colpo d’aria originatosi dall’impianto di condizionamento dell’aereo che la portava in Italia. Questo è il cuore della principessa nella neve.

Testo e fotografie di Claudio Rampini

Guarneri del Gesù: il disegno della forma.

Disegno della Forma G – Antonio Stradivari, basato sul metodo della sezione aurea.

Ho iniziato a costruire violini nel 1985 basandomi quasi esclusivamente sul libro di Sacconi “I ‘segreti’ di Stradivari”, perché pur completamente a digiuno di una qualsiasi competenza liutaria, ne apprezzai subito la bella proprietà di linguaggio e la completezza delle informazioni.

Uno dei miei capitoli preferiti è proprio quello dedicato alla forma del violino, ed è quello su cui mi sono basato per costruire i miei strumenti da allora fino ad oggi, perché ho sempre pensato che un liutaio debba essere padrone di creare le proprie forme in modo originale.

Anche se il disegno della forma a mano di Sacconi contiene alcune imprecisioni sul calcolo della sezione aurea e il riporto della lunghezza della forma “G” originale (lunga 350.4mm e non 354mm, come riportato nel libro), ho sempre trovato affascinante questo suo metodo, che trova i suoi fondamenti nella opera di Luca Pacioli “De Divina Proportione” del 1509, i cui insegnamenti vengono ancora oggi praticati presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Ricordo a questo proposito che nell’introduzione del libro “I ‘segreti’ di Stradivari” di Sacconi, curata da Alfredo Puerari, è chiaramente scritto che Sacconi abbia frequentato il corso di studi nella sua completezza presso l’accademia romana. Quindi è lecito pensare che Sacconi abbia imparato proprio lì questo metodo che poi egli ha applicato al disegno della forma Stradivariana.

Forma G originale Antonio Stradivari – Museo del Violino – Cremona.

Negli anni ho disegnato con questo stesso metodo non solo le forme dei miei violini, ma anche quelle dei violoncelli e delle viole, ispirandomi a Stradivari, Amati e Andrea Guarneri (per le viole) e Giuseppe figlio di Andrea, trovando sempre congrue corrispondenze che mi hanno permesso di realizzare strumenti al tempo stesso personali ed ispirati alle proporzioni dei classici.

Tuttavia non mi ero fino ad oggi mai cimentato in modo sistematico nello studio della forma di Giuseppe Bartolomeo Guarneri detto del Gesù. Infatti, la forma Guarneri “Alard” 1742, è stata da me sì disegnata con squadra e compasso, ma non facendo troppa attenzione al concetto della sezione aurea, date le forti irregolarità a cui le creazioni guarneriane furono soggette. Ma preso il coraggio a due mani, complice il fatto che ormai avevo acquisito un certo occhio sulla forma Guarneri “Alard”, mi decisi finalmente a realizzare la mia prima forma guarneriana partendo da un solo unico dato: la lunghezza dello cassa, da cui ho ricavato quella della forma. Cioè a dire che le casse armoniche guarneriane sono in genere piuttosto corte rispetto a quelle stradivariane, circa 353mm, che facendo i debiti calcoli togliendo i bordi e lo spessore delle fasce si arriva ad una forma lunga 346mm.

Disegno della forma Guarneri del Gesù seguendo il metodo di disegno basato sulla sezione aurea.

Questa misura, che oltrettutto è simile a quella del “Tiziano” 1715 di Stradivari, mi ha subito fatto pensare che le proporzioni guarneriane non fossero così diverse non solo da quelle stradivariane, ma anche da quelle amatiane e di altri membri della famiglia Guarneri. Il fatto di essere partito dall’unico dato della lunghezza della cassa, senza avere a riferimento nessuno strumento reale è stato per me fondamentale per non essere influenzato riguardo il risultato finale, così come ho fatto a suo tempo quando ho disegnato le forme stradivariane PG e G di Stradivari.

Il primo risultato è stato incoraggiante perché a fronte di una minore larghezza dellle CC (circa 3mm), e di una “apertura” minore delle punte superiori, tutte le curve della nuova forma sono risultate coerenti al confronto delle fotografie di alcuni strumenti reali. Tenuto conto della forte irregolarità del lavoro di Guarneri del Gesù, ho quindi adeguato la larghezza minima delle CC a quella della media degli strumenti reali (circa 110mm), e ho proceduto ad “aprire” le punte superiori.

Sovrapposizione del disegno finale della forma Guarneri ottenuto secondo il metodo della sezione aurea, con la sagoma del contorno del violino Guarneri “Alard” 1742 ottenuta da un poster di “The Strad” seguendo il percorso interno dei filetti. Notare la minore larghezza delle CC del disegno della forma rispetto alla sagoma, ciononostante il carattere della curva non sembra esserne compromesso.

A questo proposito, è bene precisare che in fase di disegno di una forma che segua le proporzioni stradivariane, il completamento delle punte è sempre da intendere in modo del tutto teorico, poichè non esistendo in questo caso una regola fissa che ci guidi nel disegno delle punte medesime, ecco che la pratica ci soccorre e ci suggerisce di usare raggi più ampi per ciò che riguarda i raggi di curvatura delle fasce delle CC per ciò che riguarda la parte aderente alle punte superiori e in parte anche a quelle inferiori. Sotto questo aspetto il lavoro di Stradivari indica chiaramente gli adattamenti fatti in questo senso: si prenda il violino “Il Toscano” 1690 e il “Cremonese” 1715, e si potranno vedere notevoli differenze nelle curve delle CC nella parte aderente alle punte superiori.

Questo vale ancora di più per Guarneri del Gesù, che nel tempo sembra avere “aperto” le punte superiori in modo molto evidente, affinchè non si avessero soverchie difficoltà nella piegatura delle fasce, riuscendo al contempo a conferire alla forma lo slancio tipico delle CC, conferendo ai suoi strumenti uno stile inconfondibile, forse ereditata da Andrea Guarneri perché anche le viole del nonno in questo caso mostrerebbero un ampio “respiro” nell’altezza delle CC. Questa apertura delle punte superiori sembra essersi mantenuta per buona parte degli strumenti costruiti dal 1735 in poi da Guarneri del Gesù.

E’ importante tenere presente che lavorare con una forma interna significa in ogni caso ottenere sempre uno strumento diverso dall’altro, questa è una delle peculiarità di questo metodo di costruzione del violino secondo la tradizione cremonese. Nella pratica quotidiana del mio lavoro mi sono trovato spesso a cambiare la modellazione delle punte a seconda dell’estro del momento, preferendo nel tempo avere punte non troppo lunghe onde evitare che suonando lo strumento, l’arco ne “intercetti” le delicate estremità con conseguenti possibili danni alle punte stesse.

Avere punte più corte o più lunghe anche di un solo millimetro comporta differenze stilistiche marcate e sostanziali, che si ripercuotono sull’intera linea dello strumento, filetti inclusi. Oltretutto è anche necessario che la lunghezza delle punte superiori sia coerente con quelle inferiori, e viceversa; questo è il motivo per cui una nuova forma interna richiederà sempre la costruzione di alcuni strumenti di “perfezionamento”. L’osservatore esterno potrà non percepire questi particolari, ma il liutaio che ha disegnato la forma e con essa ha costruito gli strumenti, conosce bene queste fasi di lavorazione.

Versione finale del disegno della forma Guarneri del Gesù basata sulla sezione aurea, completa degli zocchetti e dei fori dei pioli di ancoraggio delle controsagome delle fasce.

Questo disegno della nuova forma guarneriana basata sulla sezione aurea, è ad oggi oggetto di ulteriori studi e perfezionamenti, inclusi confronti e consulti con altri miei colleghi ed allievi, al momento non è stato ancora realizzato nessuno strumento con essa, ma sono abbastanza ottimista. La mia soddisfazione è quella di avere finalmente raggiunto in modo che ritengo affidabile una possibile definizione della forma che Giuseppe Guarneri detto del Gesù avrebbe usato per i suoi strumenti, seguendo proporzioni niente affatto diverse rispetto a quelle usate da Stradivari e gli Amati, al punto che inizialmente Guarneri stesso ha usato riferimenti stilistici e formali esplicitamente stradivariani (vedi violino “Kreisler” del 1730). Il suo stile inconfondibile, che noi oggi notiamo anche dalla forma che ho infine disegnato, sembra sia derivato da alcune accortezze adottate al fine di un lavoro più spedito, e sicuramente anche da una padronanza di uno stile personale che ancora oggi continua a fare scuola, meritatamente.

Un capitolo a parte sarà dedicato al violino “Tiziano” 1715 di Stradivari, che sembra condividere così tanto in termini di proporzioni con le forme Guarneri.

Testo, disegni e foto di Claudio Rampini

In memoria di Charles Beare.

Charles Beare mostra un Guarneri del Gesù durante la mia visita a Londra nel 1988.

Charles Beare è scomparso lo scorso 26 Aprile, nato nel 1937, la sua è stata una lunga vita dedicata agli strumenti antichi, dei quali egli è stato uno dei maggiori esperti mondiali.

Correva l’anno 1985 ed avevo appena terminata la lettura de “I ‘segreti’ di Stradivari” di Sacconi di cui seguii puntualmente tutte le indicazioni per la costruzione del mio primo violino, perché da bravo studente di archeologia qual ero, sentii che la prima esigenza di un liutaio è quella di risalire alle fonti, cercando di riconoscere tutte le stratificazioni che dall’origine del violino ad oggi si sono prodotte nel tempo.

Quindi, oggi come allora, ho sempre evitato qualsiasi “contaminazione” successiva alla tradizione classica stradivariana, a partire dal disegno della forma interna basata sulla sezione aurea, per finire alle vernici ad olio e i pigmenti usati nella tradizione pittorica.

Fu appunto nella mia completa ignoranza in fatto di vernici e anche dai tentativi infruttuosi di ricreare la vernice basata sulla propoli, che Sacconi descrisse nel suo libro, che tornato alla Libreria del Convegno di Cremona (editore del libro di Sacconi), chiesi alla proprietaria chi fossero al momento i maggiori esperti che avevano conosciuto e frequentato Simone Fernando Sacconi. La risposta fu breve e concisa: Francesco Bissolotti e Charles Beare.

Fondo del violino Guarneri del Gesù nello studio di Charles Beare, 1988.

Quindi, da una parte mi affrettai a far subito visita alla bottega della famiglia Bissolotti, allora sita in via Milazzo, e dall’altra a scrivere una lettera a Charles Beare, ponendogli una semplice e scontatissima domanda: “Egregio Mr. Beare, che vernice ha usato Stradivari per i suoi violini?”.

In modo del tutto inaspettato, eravamo in piena estate ed io ero impegnato in una campagna di ricognizione archeologica in Maremma, quando mia madre mi comunicò che era arrivata una lettera da Londra. Ebbene, Charles Beare mi aveva risposto personalmente e con una grande cortesia professionale, mi disse che Stradivari nella sua carriera aveva spesso cambiato vernice, per cui non si poteva essere certi in assoluto della natura delle sue vernici.

Ricordo che nel 1985 eravamo ancora nell’epoca delle impossibilità nell’analizzare le vernici, perché l’ossidazione dei componenti non ne permetteva il riconoscimento aldilà di ogni ragionevole dubbio, e che solo nel 1989 Barlow e Woodhouse pubblicarono il loro celebre articolo “Firm Ground” su “The Strad“, che oltretutto parlava dello strato di preparazione del legno degli strumenti stradivariani, argomento ancora oggi misterioso ed affascinante, e non della vernice vera e propria.

Quello fu il primo fortunato “incontro” con Charles Beare, un rapporto quasi esclusivamente epistolare continuato per un certo numero di anni. Nel 1988 fui ricevuto, senza appuntamento, nel suo negozio a Londra, un’accoglienza decisamente calorosa in cui Beare mi mostrò due meravigliosi Guarneri del Gesù originali, e che ebbi facoltà di provarne le qualità sonore nientemeno che con un arco appartenuto a Pinchas Zukerman.

Riccio del violino Guarneri del Gesù mostrato in questo articolo, nello studio di Charles Beare 1988.

Ricordo che ero così emozionato nel provare lo strumento, che le mie già mediocri abilità come violinista non mi concessero che di produrre una serie quasi inarticolata di suoni, ma fui in ogni caso felice di poter apprezzare il fatto che gli strumenti antichi di grande valore si distinguono sempre per la finezza e la proiezione del suono, quasi mai per la “potenza”.

Nella nostra corrispondenza l’argomento delle vernici era praticamente costante, a questo proposito ricordo le impressioni positive che Beare ebbe per la vernice di Lapo Casini, e ancor più per le mie ricerche poi culminate in un mio articolo del 1995 su “The Strad”: A new glass on the Strad varnish.

Nota a margine: quest’articolo mi costò le critiche di alcuni miei colleghi fiorentini, perché da una parte venne osservato, sbagliando, che avevo ignorato la figura di Lapo Casini (scopritore della vernice alla linossina), dall’altra mi si accusò di parlare di vernici filologiche, mentre in realtà non sembravo essere capace di produrre risultati così affascinanti sui miei strumenti. Però a Cremona e anche Charles Beare, la pensavano in modo diverso a questo proposito, fortunatamente.

E poi gli spessori degli strumenti originali, le indicazioni sulle catene moderne e le montature in generale, Charles Beare fu veramente prodigo di informazioni e consigli, non criticò mai negativamente i miei lavori, ma anzi ne evidenziò sempre il costante miglioramento nel tempo. Non furono semplici incoraggiamenti, ma vere e proprie linee guida che ebbero origine in quel laboratorio di New York, presso Wurlitzer, in cui Beare incontrò Sacconi e ne divenne allievo.

Charles Beare è stato un gigante della liuteria mondiale, eppure davanti alle mie osservazioni, anche quelle poco sensate, non mancava mai di rispondere. Come quando gli scrissi che il Messia di Stradivari, che lui mi invitò a visionare presso l’Ashmolean Museum, non mi aveva convinto al 100%, lui mi rispose molto concisamente: “Yes, it’s very authentic!“.

Oppure quando in occasione della grandiosa mostra che si tenne a Cremona nel 1987 nel 250° anniversario della morte di Stradivari, in cui Beare riuscì a mettere insieme più di 60 strumenti originali di Stradivari, gli feci osservare che le luci nelle sale erano molto basse, era veramente difficile potere cogliere i particolari degli strumenti, anche con l’ausilio di una piccola torcia tascabile. Beare mi rispose che purtroppo chi progettò l’esposizione, l’architetto Gae Aulenti, non tenne troppo conto di questo problema e delle esigenze dei fruitori della mostra.

In buona sostanza si trattò di un eccesso di prudenza nei confronti degli strumenti, che in ogni caso non guasta mai. Fu però in quell’occasione che vidi per la prima ed unica volta il “Lady Blunt” del 1721 di Stradivari, e che grazie ad un provvidenziale, quanto sottile, raggio di sole che riuscì a penetrate dai pesanti “scuri” delle finestre del palazzo comunale di Cremona, riuscii a cogliere le famose “pagliuzze d’oro” della vernice, che improvvisamente iniziarono a brillare come animate di luce propria. Una visione mistica, che non mi ha più abbandonato, solo con il “Cristiani”, il violoncello che Stradivari costruì nel 1700, riuscii a provare qualcosa di simile.

Svelo un grande segreto: per apprezzare a pieno le vernici di Stradivari, come di qualsiasi altro liutaio della classicità cremonese, è importante che gli strumenti siano in condizioni più che buone, e che soprattutto rechino ancora sostanziali quantità di vernice originale. Altrimenti, di quegli strumenti si potrà ammirarne solo il suono, non già una inesistente vernice originale.

L’ultima volta che incontrai Charles Beare, fu in occasione del mio primo ed unico concorso a cui ebbi la sventura di partecipare nel 2008 a Portland, Oregon, U.S.A. Infatti, il mio mentore di allora, che aveva fiducia illimitata nelle mie possibilità creative, mi “costrinse” letteralmente ad iscrivermi alla competizione, di cui Beare fu uno dei giudici. Ovviamente il mio violino fu scartato alla prima selezione, non tanto perché brutto o costruito male, ma semplicemente perché “non era costruito per i giudici“, cioè a dire che per strappare qualche posizione un minimo onorevole in quel tipo di concorsi, avrei dovuto antichizzare il mio strumento e anche costruirlo con uno stile che allora, ma anche oggi, era molto vicino ai criteri di una liuteria cinese, piuttosto che a quelli personali artistici di un liutaio italiano.

Ed infatti vinse un ragazzo di origine cinese, credo che fosse allievo di J. Curtin, il cui violino, una copia un po’ giallo limone di un Guarneri del Gesù, capace oggettivamente di emettere un suono orribile. Nelle graduatorie, l’unico che mi dette buoni voti fu proprio Charles Beare, questo per me significò qualcosa d’importante, perché fu l’unico a “capire” il mio strumento.

Post Scriptum: le foto che vedete pubblicate in questo articolo le ho scattate nello studio di Charles Beare, e sono state ritoccate per una maggior leggibilità, dato che si tratta di riproduzioni da vecchie stampe.

Testo e foto di Claudio Rampini.