ABSOLUTE BEETHOVEN – GAUTIER CAPUÇON / FRANK BRALEY

Ieri, sabato 16 Marzo, per la 79ª stagione IUC – Concerti alla Sapienza, si è svolto a Roma il concerto del duo Gautier Capuçon (cello) e Frank Braley (piano), dedicato all’integrale delle sonate per violoncello e pianoforte di Ludwig van Beethoven.

Programma della serata:
Sonata n. 1 in fa maggiore op. 5 n. 1
Sonata n. 4 in do maggiore op. 102 n. 1
Sonata n. 2 in sol minore op. 5 n. 2
Sonata n. 3 in la maggiore op. 69
Sonata n. 5 in re maggiore op. 102 n. 2

Non sapevo nulla di Gautier Capuçon, se non per il suo cognome che mi riportava al violinista Renaud Capuçon. Infatti, sono fratelli, ed ho trovato sorprendente che in una famiglia la dea della musica potesse fare non uno, ma due miracoli, nel dotare due fratelli di un talento così grande.

Ebbene, fin dalle prime note Gautier è riuscito subito a catturare l’attenzione con un suono straordinario. Giova sempre ricordare che suonare Beethoven è cosa straordinariamente impegnativa perché quel tipo di canto e di incanto richiede qualità di interpretazione uniche, in questo caso non esiste virtuosismo di sorta che possa in qualche modo dare supporto ad una interpretazione debole o superficiale.

Fin dal primo attacco, ho notato subito un suono che ormai ho imparato a definire “familiare”: caldo, diretto, avvolgente, di cui non riesci a capirne bene la sorgente, e al tempo stesso nitido e presente.

Un suono che ti soprende e ti pervade tenendoti incollato alla poltrona. Non può essere uno Stradivari, mi dicevo, ormai i musicisti che possano permettersi strumenti così importanti sono pochissimi, e difatti nella mia mente ho ancora il ricordo del suono di Misha Maisky e del suo Montagnana, oppure quello di Filippini o di Baldovino e dei loro Stradivari.

Intanto la musica di Beethoven corre placida ed intensa nella sala, ma continuo ad essere rapito dal suono di Capuçon e pure da quello di Bradley, un pianista che definirei “senza perdono”, uno di quelli che penso possa mettere in crisi molti solisti perché la sua stoffa non sembra affatto quella di essere un ossequioso accompagnatore, ma al contrario sembra spingere il solista al cosiddetto “terzo suono”, quello generato dai due strumenti in perfetta fusione.

Ho notato che Capuçon usa corde Larsen per il suo strumento, la cui qualità non mi ha mai fatto impazzire, ma che su questo ancora per me misterioso violoncello sembrano funzionare molto bene con bassi di eccezionale profondità e acuti pervasivi ma mai fastidiosi, come pure un eccellente equilibrio fornito dalle corde centrali.

Il mistero è chiarito quando prima di rientrare in sala durante l’intervallo, riesco ad intercettare Capuçon intento ad accordare lo strumento prima della seconda parte, mi presento e gli chiedo che strumento stia suonando, in modo cordiale con occhi da furetto mi rivela l’arcano: Stradivari! (anni 20 del 1700).

Mi tornano in mente le parole di Sacconi dal suo libro “I ‘segreti’ di Stradivari”, quando scrive di un’esperienza di ascolto riguardante un violoncello del grande cremonese, il cui suono dello strumento parve provenire alle sue spalle invece che dal musicista che aveva davanti.

Analogamente all’esperienza descritta da Sacconi, anche in questo caso la sorgente sonora rimaneva incerta, propagandosi nella sala in armonici imprevisti e anche sorprendenti.

Una grande lezione di musica, ma soprattutto di suono, perché fa capire come uno strumento concepito in modo eccelso riesca a garantire un volume e una qualità di assoluta eccezione. Niente di misterioso: bombature piuttosto basse, forma tipicamente stradivariana, snella ed elegantissima, tavola armonica di venatura stretta, marezzatura stretta delle fasce e del fondo in acero.

Al netto di uno strumento perfettamente messo a punto e con alle spalle alcuni secoli di onorata carriera, un violoncello costruito secondo il metodo stradivariano così bene evidenziato a suo tempo da Sacconi, “deve” per forza di cose suonare in quel modo.

Certamente in liuteria c’è sempre spazio per la creatività, ma per il liutaio contemporaneo il punto di partenza rimane sempre lo stesso: Stradivari.

Testo e foto: Claudio Rampini