Incontro ravvicinato con Erica Piccotti, astro nascente del violoncello

Photo Credit: Laure Jacquemin

Il suggestivo Auditorium “Lo Squero” dell’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, lo scorso 18 giugno, ha ospitato il concerto del talento emergente Erica Piccotti accompagnata al pianoforte da Monica Cattarossi, musicista già consolidata nel panorama internazionale.
La violoncellista romana, classe 1999, ha affrontato un programma con musiche di Schumann, Brahms, Debussy, Respighi e Stravinski, pagine particolarmente ricche di passaggi impegnativi, sfoggiando una padronanza e la precisione d’intonazione di chi può vantare già un brillante curriculum ed esperienza internazionale.
Il concerto è stato organizzato grazie alla collaborazione fra la Fondazione Giorgio Cini Onlus e l’Associazione Culturale “Musica con le ali” presieduta da Carlo Hruby.
Al termine del concerto che ha visto l’Auditorium gremito, Erica ha risposto ad alcune mie domande con la semplicità e la naturalezza tipiche della sua giovane età.

Erica si è diplomata in violoncello a 14 anni con il massimo dei voti, lode e menzione d’onore, ha vinto numerosi concorsi nazionali e internazionali, si è esibita in festival prestigiosi e sale come la Carnegie Hall, ha condiviso il palcoscenico con artisti quali Antonio Meneses, Miguel da Silva, Mario Brunello, Bruno Canino, Bruno Giuranna, Salvatore Accardo, Danilo Rossi, Massimo Quarta. Il suo debutto è avvenuto in occasione del Concerto di Natale 2012 che si tiene annualmente nella Camera dei Deputati.

Credit: Laure Jacquemin

Quali sono gli insegnanti con cui hai stabilito una sintonia tale da stimolarti a far emergere le tue capacità?
Certamente Francesco Storino, il mio primo insegnante, è stato molto importante nella mia formazione e rappresenta ancora un mio punto di riferimento: oltre ad avermi insegnato la tecnica, mi ha trasmesso l’amore e la passione per questo strumento, incoraggiandomi sempre a migliorare. A 14 anni, dopo il diploma al Conservatorio, ho conosciuto Antonio Meneses con cui ho subito stabilito una perfetta sintonia tanto che, nonostante la mia giovane età, mi ha accolto nella sua classe all’Hochschule der Kunste di Berna che ho frequentato per due anni ed attualmente presso l’Accademia Walter Stauffer di Cremona. Grazie a lui mi sono introdotta in ambito internazionale e ciò mi ha permesso il confronto con studenti provenienti da tutto il mondo. Tutti i suoi consigli sono preziosi, ma ciò che apprezzo di più è la libertà interpretativa che mi concede nell’esecuzione dei brani, permettendo lo sviluppo di una mia personalità, fermo restando il rispetto dello stile del compositore.

Considerata la giovanissima età, hai partecipato e vinto in innumerevoli concorsi. Quali sono a breve i tuoi prossimi impegni?
Grazie ai concorsi vinti, sia nazionali che internazionali, ho avuto l’occasione di farmi conoscere ed esibirmi in sale prestigiose come la Carnegie Hall di New York. I prossimi appuntamenti importanti saranno un recital a Palazzo Chigi Saracini all’interno del “Chigiana International Festival and Summer Academy”, un concerto al Teatro da Verme con i Pomeriggi Musicali dove eseguirò il doppio concerto di Brahms, oltre a numerosi altri eventi promossi dall’ Associazione “Musica con le ali” in location prestigiose come Palazzo Strozzi e Palazzo Pitti a Firenze e poi il concerto di Natale nella Basilica di Sant’ Ambrogio a Milano. All’estero, sempre a novembre, sarò in Cina al “Festival di musica da camera” di Chengdu e ad aprile volerò in Florida con Bruno Giuranna ed Antonio Meneses per il Festival “La Musica” a Sarasota .

Puoi raccontare del tuo approccio al violoncello e di quando hai compreso che sarebbe divenuto fondamentale per il tuo futuro professionale?
A casa mia si suonava sempre, mia mamma il pianoforte, mio fratello maggiore il violino ed io giocavo con gli strumenti che trovavo a disposizione, ma anche con flauti, trombe, chitarre, fisarmoniche. Un giorno, però, è entrato in casa il violoncello ed è stato amore a prima vista: mi è piaciuto subito il suo suono caldo, il fatto che lo potessi abbracciare e soprattutto che fosse più grande del violino di mio fratello! Molto più tardi, dopo i primi successi ai concorsi e grazie alle forti emozioni provate durante le esibizioni, ho compreso quanto importante sia per me suonare e ne ho sistematicamente conferma nei periodi in cui non ho in programma molti concerti. In questi momenti percepisco dentro me un grande vuoto e allora comprendo come il mio desiderio non sia semplicemente quello di suonare ma soprattutto quello di trasmettere e condividere le mie emozioni con il pubblico.

Il tuo ancora breve ma intenso percorso vanta collaborazioni che hanno lasciato il segno…

La prima tra tutte è stata la possibilità a soli 13 anni di suonare in duo con Mario Brunello, uno dei miei idoli, un incontro speciale che ha coinciso con il mio debutto: era la prima volta in cui mi esibivo assieme ad un’orchestra e per di più in diretta Rai, un’esperienza particolarmente intensa che rivivo ogni qualvolta rivedo il filmato. L’incontro con Brunello ed il successo del concerto mi hanno trasmesso grande motivazione a studiare con maggiori determinazione ed impegno. Sono seguite altre importanti collaborazioni con il mio insegnante Antonio Meneses, con Bruno Giuranna, Salvatore Accardo, Massimo Quarta e poi con Augustin Dumay, Louis Lortie, Miguel da Silva. Ognuno di questi incontri è stato per me molto formativo dal punto di vista musicale ma anche umano: ho compreso in modo tangibile come alcuni artisti più sono grandi, tanto più sanno essere semplici ed umili.

C’è un compositore che ami eseguire più di altri?
Mi trovo molto a mio agio nel repertorio romantico, amo particolarmente Brahms ed adoro i suoi quartetti con pianoforte. La sua musica è a volte appassionata e struggente, altre meditativa e serena, un po’ come me d’altronde.

Quali altri progetti stai condividendo con l’Associazione “Musica con le ali”?
Con l’Associazione Musica con le Ali è iniziata una bella collaborazione che mi permette di esprimere al meglio le capacità e di fare passi decisivi per il mio futuro nella musica. L’Associazione crede molto nelle mie possibilità e mi sta aiutando a raggiungere traguardi importanti sostenendomi, nei diversi aspetti dell’ attività, con varie iniziative e occasioni che contribuiscono ad arricchire la mia crescita come musicista. Proprio in questo periodo si sta definendo il progetto di un’incisione con un’importante casa discografica che con l’aiuto dell’Associazione spero di realizzare nei prossimi mesi. Però preferisco non anticipare nulla di più, per non rovinare la sorpresa.

Quando sei libera dagli impegni professionali, come preferisci trascorrere il tuo tempo, riesci a conciliare l’impegno della musica con le esigenze di una ragazza della tua età?

Amo viaggiare e leggere. La mia unica vera passione, però, rimane la musica. È chiaro che a volte mi pesa dover rinunciare a qualche serata divertente con gli amici, ma il sacrificio viene ripagato dalle emozioni che provo ogni qualvolta salgo sul palcoscenico: qui la stanchezza e le notti insonni sui libri di scuola svaniscono in un attimo.

Quale strumento usi abitualmente per i concerti, puoi descrivere le sue caratteristiche principali?
Grazie alla Fondazione Pro Canale suono un violoncello Francesco Ruggeri del 1692 di proprietà della Fondazione Micheli. È uno strumento dalle grandi potenzialità con un suono molto caldo e potente nei bassi, ma nello stesso tempo elegante e cristallino nella parte acuta. È molto importante avere uno strumento che mi conceda di esprimermi al meglio nei concorsi e durante i concerti. Colgo l’occasione quindi per ringraziare tutti coloro che sostengono, sotto vari aspetti ed ognuno con le proprie possibilità, noi giovani musicisti, dandoci prova di stima e fiducia.
Grazia Rondini  www.lachiavediviolino.it

Aperte le iscrizioni del primo Corso di Laurea in Italia per restauratore di strumenti musicali

ll 10 luglio prossimo scadono i termini per l’iscrizione all’a.a. 2017/18 al corso di laurea magistrale a ciclo unico in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali, Percorso formativo Professionalizzante n. 6 per strumenti musicali, strumentazioni e strumenti scientifici e tecnici, l’unico e primo corso previsto in Italia.
Il nuovo Corso di Laurea con sede a Cremona è stato attivato all’interno del Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università di Pavia: si tratta del sesto indirizzo del Corso di Laurea Magistrale a ciclo unico in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali. Il laureato magistrale in Conservazione e restauro dei beni culturali sarà abilitato alla professione di restauratore di beni vincolati, essendo in grado di operare nei campi della conservazione, del restauro, della gestione e valorizzazione degli strumenti musicali e di quelli della scienza e della tecnica.

Per conoscere un po’ più a fondo alcuni aspetti di questo nuovo e interessante indirizzo accademico, ho incontrato la Prof. Angela Romagnoli, responsabile del Corso di Formazione.

Quali sono state le motivazioni che hanno portato all’istituzione di questo nuovo percorso universitario, considerata la giá importante presenza in Italia di corsi relativi alla formazione di restauratore per Beni Culturali?

La progettazione del corso è frutto di un lavoro meticoloso a cui hanno partecipato istituzioni culturali protagoniste nell’ambito della liuteria, della musica e della formazione, per andare a colmare una lacuna del panorama delle offerte formative in Italia: a seguito di una normativa del 2011, la figura professionale del restauratore non può più destreggiarsi con una semplice preparazione tecnica ma deve possedere una solida formazione culturale, sia dal punto di vista umanistico che scientifico, affinché possa affrontare il discorso della conservazione dei beni con piena coscienza e consapevolezza della grande responsabilità del proprio ruolo.
Dando un’occhiata al Piano di Studi emerge subito la massiccia presenza di ore di laboratorio…
Certo, il Corso di Laurea prevede al suo interno discipline di tre ambiti fondamentali: quello umanistico, quello scientifico e quello artigianale per un totale di 300 crediti; ma il punto di forza è rappresentato dai 100 crediti che corrispondono a 2500 ore di laboratorio distribuite nei 5 anni.
Il corso è supportato dai laboratori scientifici dell’Università di Pavia e del Politecnico di Milano, sostenuti dalla Fondazione Arvedi, che hanno sede presso il Museo del violino di Cremona. Il corpo docente è composto da insegnanti già in servizio all’Università di Pavia e nel Politecnico di Milano per quanto riguarda le materie umanistiche e scientifiche, mentre le attivitá di laboratorio sono curate da professionisti altamente specializzati ma esterni all’Ateneo.

Il corso di laurea prevede l’iscrizione di soli 5 studenti per ogni anno, 25 in tutto il Corso. Perché la scelta di un numero così ristretto?

Per i corsi di laurea di questa classe, il Ministero impone che nelle ore di laboratorio vi sia un rapporto studenti/docente di 5 a 1; con questa modalitá si può garantire una formazione eccellente ed inoltre si evita il rischio della saturazione di mercato nel settore. Al termine del Corso di Laurea, inoltre, gli studenti dovranno sostenere un Esame di Stato.

Per poter accedere ad un “numero chiuso” così ristretto é previsto un esame di ammissione?

Sì, l’esame di ammissione consiste di 3 prove: una pratica che testa la manualitá dello studente a confronto con un lavoro, abbastanza generale, su legno, un test audio-percettivo ed un colloquio per conoscere le motivazioni e la cultura musicale dello studente.

La facoltà riguarda la preparazione rivolta solo agli strumenti ad arco?

Il corso ha preso il via lo scorso anno per gli strumenti ad arco, a pizzico e gli organi; gli studenti selezionati avevano già una formazione completa da liutai, ma non è un prerequisito fondamentale. Nei prossimi anni verranno introdotte anche altre classi di strumenti, come i fiati o le tastiere storiche.

È possibile fare un consuntivo al termine di questo primo anno accademico?

Possiamo affermare di essere parecchio soddisfatti dei risultati, abbiamo la conferma che gli esami di ammissione hanno funzionato perché gli studenti sono molto motivati ed entusiasti. In questo momento si trovano all’Università di Edimburgo per partecipare ad un importante convegno internazionale organizzato dalla Galpin Society e per visitare il museo degli strumenti della città: è importante che vengano a contatto con collezioni e realtá diverse da quelle italiane.

Quali sono gli ambiti lavorativi e gli sbocchi professionali a cui potranno accedere gli studenti al termine del Corso di Laurea?

Innanzi tutto questa laurea dovrebbe essere riconosciuta e spendibile quanto meno in tutta Europa, ma considerando l’enormità di beni culturali, collezioni pubbliche e private presenti nel nostro paese (in numerosi casi non ancora nemmeno catalogati) auspichiamo che lo Stato rifletta sulla necessità di strutturare la figura del restauratore all’interno dei musei e in generale delle collezioni pubbliche, come avviene già all’estero, ma purtroppo non ancora in Italia; speriamo anche che queste nuove figure con competenze così complesse ed elevate trovino spazio nelle Sovrintendenze, nelle Curie, nei palazzi storici per progetti sia di conservazione che di restauro dei beni.
Auguriamo buon proseguimento dei lavori alla Prof. Romagnoli e ricordiamo che il prezioso progetto ha potuto vedere la luce grazie alla sinergia fra il Distretto Culturale del Comune di Cremona, il Politecnico di Milano, il Museo del Violino di Cremona, Cr.Forma, la Scuola Internazionale di Liuteria, i laboratori scientifici dell’Università di Pavia e il sostanziale contributo finanziario della Fondazione Cariplo.
Per accedere al bando di ammissione consultare l’albo ufficiale del sito dell’Università di Pavia

Grazia Rondini www.lachiavediviolino.it

Il Quartetto di Cremona, i primi 10 anni di Musica

02 maggio 2011

Vi propongo l’intervista che ho fatto al Quartetto di Cremona, una delle formazioni “giovani”, a mio parere più interessanti del nostro panorama musicale. Questi musicisti sono giovani, hanno energia da vendere, ma soprattutto hanno talento e voglia di comunicare con il mondo, Con la precedente intervista dedicata al solista M° Krylov, penso di offrire uno spaccato della vita dei musicisti che normalmente non si avverte durante le esecuzioni registrate e dal vivo. Sono convinto che la parola viva dei protagonisti offrirà una migliore comprensione della Musica e degli strumenti con cui è suonata.

Claudio Rampini: questi sono i vostri primi 10 anni in quartetto. Siete contenti?

Quartetto di Cremona (Cristiano Gualco): Sì, anche se 10 anni per un quartetto non sono moltissimi, altri quartetti sono più anziani del nostro e possono contare su carriere ultra decennali, ma considerando che fare solo quartetto per 10 anni vuol dire mettere nel lavoro tutto quello che hai. Chi conosce il mondo del quartetto comunque sa che questa è una realtà non facile sotto molti punti di vista, sia per trovare le persone che vogliono farlo con te, questa è la prima cosa, e per riuscire, perlomeno i primi anni, a sopravvivere di un lavoro del genere.

CR: Non ricordo bene, ma mi sembra che non ci siano stati cambiamenti nel vostro organico, o sbaglio?

QC: Un cambiamento c’è stato quasi da subito, il primo anno. Io e Simone, il violista, che era già all’epoca mio amico di vecchissima data, eravamo allievi della Scuola Stauffer di Accardo, a Cremona. Ebbi l’idea di formare un quartetto e lo proposi a Simone, dato che alla Stauffer si poteva trovare della gente valida, trovammo le altre due persone in seno all’Orchestra da Camera di Accardo. Si trattava del violoncellista Giovanni Gnocchi, che oggi ha fatto una bella carriera nella Camerata Salzburg, e del violinista Stefano Ferrario, che attualmente è spalla nell’orchestra Haydn di Bolzano. In seguito si sono susseguite diverse persone nel ruolo di secondo violino. Ad un certo punto secondo e cello ci hanno lasciato e per puro caso abbiamo trovato altri due genovesi come me e Simone, che hanno avuto desiderio di iniziare questa nuova attività artistica. A dire il vero non avevo molta fiducia che si potesse continuare, perché perdere due componenti in un colpo solo è stata una dura prova, ma al tempo stesso abbiamo avuto la fortuna di trovare altri due musicisti molto determinati, e soprattutto motivati nel voler fare quartetto come lo volevamo fare noi.

CR: E come lo volevate fare voi il quartetto?

QC: All’inizio non avevamo idea di come fare un quartetto, e forse non ce l’abbiamo nemmeno ora, il quartetto resta comunque un’idea che si evolve nel tempo. Abbiamo avuto un incontro con Piero Farulli, che sicuramente sapeva molto bene come fare un quartetto, e già agli inizi quando andammo con la prima formazione ci chiedeva “ma voi quanto provate?”, noi rispondemmo “due o tre volte la settimana” e lui rispose “e gli altri giorni cosa fate?”. Da lì abbiamo iniziato a capire che fare quartetto richiede dedizione totale e questo per un ragazzo non è facile da capire, e così è stata la prima cosa che abbiamo messo in chiaro ai due nuovi componenti. Loro hanno accettato di buon grado perché avevamo già fatto qualche concerto ed hanno avuto fiducia da subito che la cosa poteva crescere ed evolvere in modo positivo. Sono fiero di poche cose nella mia vita e dopo dieci anni sono sicuro che il quartetto è una queste, stare insieme tutto questo tempo e avere condiviso tanti viaggi e tante esperienze, concerti e concorsi importanti, essere ancora qui dopo dieci anni è una grande soddisfazione.

CR: Sicuramente, dopo dieci anni aver ancora voglia di fare musica insieme con la prospettiva di affrontare serenamente anche i prossimi dieci, venti o trenta, è un bel traguardo.

QC: Siamo fortunati, altri quartetti nostri coetanei non hanno un buon rapporto al loro interno, e anche a noi sembrava piuttosto difficile che si potesse arrivare dopo sette o otto anni di convivenza musicale riuscire ancora sopportarsi. Invece noi abbiamo un rapporto bellissimo, ci divertiamo un sacco quando andiamo in giro, ci sono un paio di volte all’anno momenti in cui ci si scorna, ma solo perché si è particolarmente stanchi o perché si sta molto in giro, in queste occasioni può capitare una rispostaccia, ma ci divertiamo ancora parecchio e abbiamo imparato a non esagerare nei momenti critici come quelli in cui si è stanchi. Quindi tutta questa difficoltà nello stare insieme in quartetto non l’abbiamo mai avuta.

CR: Il vostro è forse un caso più unico che raro, perché molti quartetti famosi, vostri illustri predecessori, hanno sicuramente avuto una vita più tumultuosa.

QC: Deve esserci un buon accordo anche fuori del palco, perché quando suoni e non riesci a guardare una persona negli occhi, la musica sicuramente ne risente.

CR: Credo che anche per la musica valga il concetto di “evoluzione per conflitti” che forse è piuttosto faticosa, ma anch’essa ha i suoi lati positivi. La cosa interessante è che comunque voi siete la dimostrazione vivente del fatto che per fare musica bene insieme non c’è affatto bisogno di scannarsi.

QC: No, infatti. Una cosa che è stata importante per noi è che siamo stati subito seguiti da una o più persone esperte che ci hanno guidato lungo un percorso. Il rischio di non avere una guida è quello dell’instaurarsi di una competizione tra i musicisti che assolutamente non giova né alla musica, né ai rapporti. Quindi ai quartetti più giovani di noi che ci chiedono consigli su come iniziare, suggeriamo sempre di trovare una guida che permetta loro di curare subito l’equilibrio tra le parti. Noi abbiamo trovato all’inizio Piero Farulli, che ci ha dato una specie di “infarinatura morale”di come stare in quartetto, poi ci sono stati gli anni con Hatto Beyerle (Viola e fondatore del Quartetto Alban Berg – ndr), e quando hai uno sopra di te che ti dà delle linee guida musicali, tutti lavoriamo per raggiungere un obiettivo comune, quindi lo spazio per la discussione e la lotta all’interno del quartetto è minore, si cerca semplicemente di capire quello che viene insegnato. Questo contribuisce molto ad abbassare le conflittualità.

CR: Sono già tre le personalità di rilievo che spiccano nel tuo racconto: Accardo, Farulli, Beyerle. Di preciso che ruolo hanno avuto queste figure?

QC: Accardo è stato fondamentale per conoscerci, io lo cito sempre perché ha avuto il merito di aver costituito questa scuola a Cremona, un posto dove si possono incontrare molti musicisti di talento. Grazie ad Accardo siamo riusciti a formare il nostro quartetto. Subito dopo abbiamo fatto l’audizione a Fiesole, un posto da cui anche oggi non si può prescindere, se si vuole fare un percorso di studio serio. Beyerle è un grandissimo studioso soprattutto del linguaggio dei classici e quindi noi abbiamo studiato benissimo Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, ci ha dato una grossissima impronta su questi autori, per un quartetto è fondamentale, ancora oggi viviamo grazie a questo contributo. Per noi è stato fondamentale, come musicisti italiani, ognuno con un carattere molto diverso, avere una base comune dalla quale partire per la ricerca dello stile. Oggi facciamo tante cose che forse a lui non piacerebbero, però non possiamo mai ignorare che il nostro stile sia iniziato da lì.

CR: Parliamo un po’ di strumenti: possiedi sempre quel meraviglioso violino di Nicola Amati, con cui ti ho visto e sentito suonare la prima volta nel 2007?

QC: Sì è ancora lì, è un Nicola Amati del 1640 ed è in ottima salute. E’ uno strumento che apprezzo sempre di più anno dopo anno, devo dire che mi piace moltissimo.

CR: Il secondo violino che strumento possiede?

QC: Si tratta di una acquisizione recentissima, degli ultimi due o tre mesi, un prestito da parte della Fondazione Lam in collaborazione con la Fondazione Stradivari di Cremona. E’ un Giovan Battista Guadagnini del 1757, ex Pochon, un bellissimo strumento, veramente eccezionale.

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Claudio Rampini intervista Sergej Krilov

2 Settembre 2010
Non ho la presunzione di mettermi a fare il giornalista, ma nella mia vita ho sempre desiderato parlare con i grandi solisti, e con loro scambiare idee sulla musica, sugli strumenti, su tutto. Il cruccio principale è che nei giornali e nelle trasmissioni televisive i personaggi appaiono spesso irrigiditi da esigenze di spazio e di palinsesto. Io invece vorrei che la persona con cui interloquisco fosse libera, niente altro che due persone e tanta voglia di comunicare. Questa intervista al M° Krylov non era in alcun modo preparata, così come la mia lista di domande era piuttosto improvvisata e assolutamente non vincolante rispetto alla conversazione. Spero che i lettori del Portale del Violino, tra i quali ci sono molti studenti e musicisti professionisti, apprezzino le tante idee che sono scaturite in questo dialogo inconsueto, ma in fondo molto tipico, tra un solista e un liutaio.

 

Claudio Rampini intervista Sergej Krylov

Claudio Rampini: Maestro Krylov che strumenti suona attualmente?

Sergej Krilov: Attualmente ho lo strumento di mio padre costruito nel 1994 ed è quello che ho suonato ultimamente nei concerti a Portogruaro per la 28.Estate Musicale, Festival Internazionale di Musica di Portogruaro, diretto da Enrico Bronzi, e ho anche uno Stradivari “Scotland University” del 1734 proveniente dalla collezione Eva Lam di New York che mi è stato dato in prestito dalla Fondazione Stradivari di Cremona, grazie al progetto “Friends of Stradivari”.

CR: Questo Stradivari è uno strumento di dimensioni regolari?

SK: Direi di sì, non ho controllato millimetro per millimetro, ma direi che è di dimensioni regolari.

CR: Quindi non deve fare particolari adattamenti per suonarlo?

SK: No, no, direi proprio di no.

CR: Quanto è importante suonare uno strumento antico?

SK: Non è una domanda facile a cui rispondere in due parole, diciamo che ci sono strumenti antichi e moderni straordinari, così come vediamo strumenti antichi e moderni di poco valore dal punto di vista sonoro. Se si prende uno Stradivari ben conservato con caratteristiche sonore eccellenti credo non possa essere paragonato ad uno moderno in quanto lo Stradivari ha una storia alle spalle di 300 anni, sarebbe un po’ come paragonare un whisky di 3 anni con uno di 50, di conseguenza non si può paragonare uno strumento moderno con uno antico, senza tenere conto che un whisky o un vino invecchiato sono stati fatti con materiali pregiati unici, forse difficili da reperire in epoca moderna. In più c’è l’incognita che per un vino ed un violino prodotto oggi non sappiamo come diventerà nel futuro, quindi è molto complicato esprimere giudizi. Ma c’è un aspetto da considerare, spesso da parte dei violinisti c’è un pregiudizio nei confronti degli strumenti moderni dovuto ad una ignoranza di base riguardante gli strumenti ad arco, ignoranza anche involontaria in quanto la musica per un musicista è un fatto molto personale dipendente da gusti ed esperienze diverse. Può benissimo succedere che un violinista abbia avuto modo di ascoltare solo violini moderni che non suonavano un granché e da qui a pensare che tutti i violini moderni suonino male il passo è breve. Ma ci sono strumenti moderni straordinari che possono essere messi a paragone con quelli antichi, anche se bisogna tenere conto di un fattore molto importante: quello economico. Se si hanno a disposizione 15 milioni di euro, è ovvio che si avrà a disposizione la scelta sui migliori strumenti antichi, e su questo è difficile competere. Ma se si hanno 15.000 euro da spendere si deve per forza scegliere un buon strumento moderno, uno strumento antico per una cifra così modesta equivale all’acquisto di legna da ardere, a meno che non si sia avuta la fortuna di trovare l’impossibile ossia il famoso “violino nella soffitta”, acquistato per pochi soldi, che rivela di essere poi uno Stradivari o un Guarneri di cui non si sospettava nemmeno l’esistenza.

CR: Che corde usa?

SK: Utilizzo due tipi di corde, le Evah Pirazzi e le Larsen Tzigane. Uso le mute complete, non amo mescolare corde di diverse marche.

CR: E’ vero che i maestri russi erano soliti suonare con la prima e la seconda corda in metallo?

SK: Non saprei dire esattamente, ma so che David Oistrakh suonava corde sovietiche di buona qualità che conoscevo anch’io quando ero bambino, il RE e il SOL erano in budello, invece il LA e il MI erano in metallo.

CR: Che archi usa per i suoi concerti?

SK: Ne ho uno di François e Dominique Peccatte che ho acquistato circa 3 anni fa, poi ho un Lamy che mi piace sempre tantissimo, acquistato circa 11 anni fa.

CR: Constato con piacere che lei possiede due archi della migliore tradizione francese, io credo che gli archi francesi abbiano la capacità di sviluppare il massimo degli armonici a patto di avere il “giusto” punto di contatto. E’ corretto?

SK: A prescindere dalle differenze tra le varie scuole, l’unica cosa che mi ha veramente interessato finora è la caratteristica del suono e come l’arco è capace di entrare in contatto con le corde, invece per tutto quello che riguarda la “manualità”, ossia i colpi d’arco come il picchettato o lo staccato, è un fattore che riguarda il violinista al 99 per cento.

CR: Ritorniamo al suo Stradivari: secondo il M° Renato Zanettovich (Trio di Trieste), in una conversazione amichevole avuta con lui molti anni fa, gli Stradivari sono cavalli di razza non molto facili da padroneggiare. Invece, secondo la sua esperienza, maestro Krylov?

SK: Guardi, tutto dipende dalla percezione violinistica strumentale dei musicisti, è ovvio quindi che musicisti diversi possano avere diversi pareri sullo stesso strumento. E’ molto difficile generalizzare, ma è vero che tutti gli strumenti che producono un suono importante hanno una gamma timbrica e dinamica tale che bisogna saper cogliere, quindi io torno a porre l’attenzione sul musicista e sulla sua personalità unica e originale, non tanto sullo strumento in quanto tale.

CR: Il suo Stradivari quanta attenzione richiede per ciò che riguarda la manutenzione? deve far ricorso molto spesso al suo liutaio di fiducia?

SK: Dipende dai periodi, all’inizio andavo dal liutaio abbastanza spesso per controllare se tutto era a posto, che poi risultava sempre tutto a posto, era più una questione mia anche di abitudine. Poi man mano che il tempo passava le visite sono diventate meno frequenti, bisogna stare molto attenti a non confondere i due aspetti del suono: quello del violinista e quello dello strumento. I sensi del musicista devono essere sempre molto aperti per cogliere le sfumature e per lavorare in modo appropriato su se stessi a prescindere dal suono dello strumento, che comunque può suonare bene o male. Le impressioni che il musicista ricava dal suo strumento non sono tutta la verità, ma c’è molto altro. D’altra parte non vedo come il proprio suono possa cambiare radicalmente solo attraverso, per fare un esempio, un piccolo spostamento dell’anima. Io non faccio parte di quella categoria di persone che è ossessionata dalla messa a punto degli strumenti, non divento pazzo a far spostare l’anima in un senso o nell’altro pretentendo dallo strumento chissà cosa, anche se per il musicista è importante conoscere i fenomeni che determinano il suono, perché ciò aumenta molto la consapevolezza sulla propria musica.

CR: Torniamo un attimo alle origini: chi le ha trasmesso la passione per la musica e il violino?

SK: Sono stati i miei genitori, mia madre pianista e mio padre si è diplomato in violino al Conservatorio di Mosca nei primi anni ’70 con il massimo dei voti, egli è stata una persona molto speciale dal mio punto di vista, era un brillante violinista e al tempo stesso anche liutaio, due professioni fuse in una sola.

CR: Dove ha imparato suo padre a fare il liutaio? (stiamo parlando di Alessandro Crillovi, padre di Sergej. N.d.r.)

SK: Lui è stato uno dei primi liutai sovietici venuto a Cremona per frequentare la scuola di liuteria, nel 1971.

CR: E’ venuto da solo o con la famiglia?

SK: Da solo, io e mia madre eravamo a Mosca.

CR: Che tipo di liutaio era suo padre?

SK: Ha costruito circa 300 strumenti, inizialmente ha seguito modelli stradivariani e guarneriani, all’inizio degli anni ’90 ha elaborato una sua forma personale. Avrebbe potuto dare di più alla liuteria non fosse che è scomparso prematuramente a 50 anni 11 anni fa.

CR: Lei ha mai costruito un violino?

SK: E’ una cosa che mi piacerebbe molto fare, ma solo per mio puro gusto personale, non ho nessuna pretesa di diventare liutaio!

CR: Lo sa che più di qualche suo collega si è cimentato almeno una volta nella costruzione di uno strumento ad arco?

SK: Vivendo a Cremona ho molti amici liutai e chissà che un giorno anch’io non riesca a costruirne uno. Non mi importerebbe se lo strumento costruito da me fosse bello o brutto, ma costruirselo da solo significherebbe scendere nei particolari, avere l’opportunità di capire almeno superficialmente, com’è e com’è farlo sarebbe molto bello ed importante. Ma ci vogliono un sacco di conoscenze e bisogna avere un insegnante molto capace che ti ospiti nel suo laboratorio, almeno inizialmente. Sono sicuro che verrebbe fuori una schifezza!

CR: Chi può dirlo? io credo che per un musicista il costruire un proprio strumento sarebbe come andare alla sorgente del suono.

SK: Credo di sì, sarebbe molto divertente, ma sarebbe anche un divertimento con un aspetto educativo. Un’altra idea interessante, avendo fatto più volte parte di giurie di concorsi di liuteria, è quella di avere l’opportunità di vedere e suonare molti strumenti. Dopo aver suonato più di 100 strumenti in un concorso non solo si impara a valutarne il suono, ma si impara anche a guardarli in modo diverso.

CR: A proposito di concorsi, sono sempre stato molto perplesso di fronte al fatto che una giuria di musicisti sia costretta a giudicare in poco tempo un grande numero di strumenti. Anche ad essere un grande musicista come lo è lei, credo che non ci sia proprio lo spazio fisico per una giudizio sereno.

SK: E’ molto difficile, infatti, per questo la giurie di cui ho fatto parte erano composte da più musicisti che lavorano con grande attenzione. Certamente bisogna anche esserne capaci, perché, torno a dire, è molto difficile e le giurie possono anche sbagliare perché composte da esseri umani. Per quello che riguarda gli eventi a cui io ho partecipato, è successo di aver premiato il suono di due violini piuttosto diversi nello stile costruttivo, e poi abbiamo scoperto essere dello stesso autore, da questo posso dire che il suono ha una sua impronta piuttosto ben definita che non può sfuggire al musicista ben preparato. E poi c’è considerare anche che le giurie hanno un dibattito interno che le vede spesso divise nel giudizio sugli strumenti, così come nella durata del concorso, si possano mutare le proprie opinioni, come si può intuire, il funzionamento di una giuria di 10 persone non segue regole matematiche.

CR: Abbiamo parlato degli strumenti, ma ora andiamo più nello specifico della musica, nel suo modo di suonare io avverto un duplice aspetto che si traduce in una grande dinamica di suono. Il suo non sembra un virtuosismo fine se stesso, lei pare essere capace anche di una grande cavata e cantabilità. In poche parole lei non sacrifica la musica sull’altare del virtuosismo, cercando di ammaliare il pubblico con grandi acrobazie ed effetti speciali. Le faccio un esempio riferendomi ad un grande del passato: Jasha Heifetz. La sua “Zingaresca” di De Sarasate è strabiliante, precisa e veloce come un treno, ma ascoltando lo stesso pezzo eseguito da lei, Maestro Krylov, si scopre anche una dimensione per me abbastanza inedita di cantabilità.

SK: Io la ringrazio, solo che lei mi sta paragonando ad uno dei violinisti più grande della storia: Jasha Heifetz. Come se, per modo di dire, io paragonassi lei che è un liutaio, ad Antonio Stradivari! Eppure per la “Zingaresca” il modello di Heifetz, è quello che io ho seguito di più perché ritengo che egli abbia espresso il massimo possibile su questo brano. Se poi lei aggiunge che in più ha trovato nella mia esecuzione un aspetto di cantabilità, non posso che esserne compiaciuto, ma forse è un complimento fin troppo esagerato nei miei confronti.

CR: Guardi, dopo anni di assedio da parte di giovani musicisti asiatici che suonano perfettamente tutto, ma che al tempo stesso fanno apparire banali i brani di repertorio più difficili, non trovo esagerata l’ammirazione per un esecutore che è capace di restituire alla musica un aspetto della sua umanità. Ma anche le esecuzioni da parte dei musicisti occidentali dell’ultima generazione, sembrano eseguire tutto con una brillantezza cristallina, talmente perfetta da sembrare finta, meccanica.

SK: Oggigiorno, la qualità puramente strumentale ed esecutiva della musica non è cosa da poco, ma bisogna che il quadro sia completo. Sicuramente mi fa molto piacere che lei e il pubblico riconoscano un aspetto di completezza nella musica che suono, è uno dei compiti più difficili rendere musicali anche la parti virtuosistiche. E’ uno dei complimenti più belli che si possano fare ad un musicista, in realtà noi suoniamo per la musica e non per la tecnica strumentale, di conseguenza intorno a tutto questo c’è un film, un’immagine, c’è un qualcosa che senza ombra di dubbio ha a che fare con l’immaginazione dell’ascoltatore, non solo dell’interprete e del compositore che ha voluto “sollevare l’immaginario attraverso i suoni”, di conseguenza, per me esecutore, la musica è sollevare l’immaginario, una riscoperta di immagini durante l’ascolto. Questa è una delle cose più difficili e complicate, se sono riuscito in questo anche in minima parte, per me è già un grande motivo di felicità.

CR: Cosa c’è di russo e di italiano nel suo modo di suonare?

SK: C’è moltissimo di tutte e due le scuole, diciamo che io mi considero un musicista russo, con una formazione sovietica e anche europea, grazie all’abbattimento delle frontiere di questi ultimi anni. Musicalmente devo moltissimo al M° Accardo, con cui ho studiato 7 anni, ma prima ho frequentato il Conservatorio di Mosca, una delle scuole violinistiche migliori del mondo e tra le più severe, dopo tanti anni di studio finisci con lo scoprire che il migliore maestro è quello che giorno dopo giorno ti consente di scoprire te stesso e la tua arte. La vera arte inizia nel momento in cui la tecnica scompare, l’arte non è che un pensiero che ha a che vedere con la sezione aurea dei pitagorici, una sorta di perfezione geometrica a cui bisogna arrivare per poi abbandonare, mantenendo le forme che sono state concepite non da noi umani, ma qualcuno più grande di noi. Noi siamo cacciatori della perfezione, la perfezione della bellezza, cacciatori della bellezza. Questo, in due minuti di discorsetto è più o meno il nostro scopo di vita.

CR: Quali sono i suoi compositori preferiti?

SK: E’ una domanda che mi viene rivolta spesso, io non ho compositori preferiti, amo tutta la bella musica e mi è difficile confrontare Beethoven o Bach con la musica di Shostakovich, questo mi è difficile perché ogni compositore appartiene alla propria epoca ed è portatore di emozioni e valori tipici dell’epoca in cui vive. In ogni caso devo eseguire il brano nel migliore dei modi cercando di capire il messaggio che il compositore ha voluto lasciare in tutti i generi di musica, perché paragonare, ad esempio, l’impressionismo francese con la musica di Paganini? entrambe sono forme di pensiero straordinarie e danno sensazioni uniche, perciò è difficile esprimere preferenze.

CR: Allora cambio domanda: cosa pensa del concerto per violino di Beethoven?

SK: Guardi, quello di Beethoven è il concerto per violino forse più bello e più difficile, per me è il concerto per violino per eccellenza, il fondamento di tutto, che racchiude in sè tutta la vita di un uomo.

CR: Quale cadenza preferisce per il concerto per violino di Beethoven?

SK: Guardi, questa è un’altra bella domanda. La cadenza che eseguo l’ho scritta io.

CR: Si è forse ispirato a Kreisler?

SK: No, la mia cadenza in realtà non si è ispirata a nessuno, anzi, l’ho scritta così, anche abbastanza breve perché non voglio disturbare Beethoven.

CR: A cosa pensa quando suona?

SK: Non faccio altro che tentare di portare a termine una mia missione, quella che mi ha portato ad essere presente sul palcoscenico del teatro in cui sto suonando. Questo è già sufficiente a consumare tutti i miei pensieri.

CR: Lei ha mai avuto paura del pubblico?

SK: Ho paura di dirlo, fino a ieri mai.

CR: Sa perché le ho fatto questa domanda? perché in vita mia ho conosciuto moltissimi bravi musicisti. Una buona metà di loro però si sono visti la carriera rovinata a causa della paura del palcoscenico. Il problema è che mi è sembrato spesso che non ne fossero molto consapevoli, al punto da non ammetterlo nemmeno a se stessi.

SK: A mio parere dipende molto da quando si è iniziato a suonare. La prima volta che sono salito su un palcoscenico avevo sei anni, da quel momento non so quanti concerti sono riuscito a suonare fino a ieri. Non parliamo del domani perché non si sa mai cosa può succedere, ma comunque fino a ieri è andato sempre tutto bene. Penso che il pubblico debba essere considerato come tale, una parte del “sistema”, senza il pubblico tutto questo non avrebbe senso. Il pubblico è il punto finale del nostro lavoro, esso rappresenta un grosso stimolo a far sì di suonare il meglio che si può. Se si ha davanti un pubblico esigente ed attento a tutto ciò che si suona, questo non può che essere positivo e che non fa altro che caricare le mie batterie interiori.

CR: Lei ha mai sbagliato durante un concerto?

SK: Ovviamente sì, chi non ha mai sbagliato in vita sua?

CR: Io però vorrei proprio sapere cosa succede quando capita di prendere una nota piuttosto che un’altra.

SK: Non siamo mica delle macchine, è normale, può succedere. Ovviamente meno si sbaglia, meglio è. E poi ci sono errori di varia natura che possono essere piccoli o grandi, in questi ultimi anni mi pare di non averne commessi di così grossi.

CR: Ho rivisto recentemente un video in cui lei suonava con Bruno Canino: grande pianista, grande accompagnatore, non trova?

SK: Definire Canino un “accompagnatore” è assolutamente riduttivo, è sopratutto un grandissimo musicista che ha suonato insieme ai più grandi musicisti della musica contemporanea. Egli stesso è considerato unanimemente un grande musicista.

CR: Anni fa lo vidi esibirsi insieme a Rocco Filippini e Mariana Sirbu nell’ensemble “Trio di Milano”, l’impressione che mi dette allora fu di grande fiducia e naturalezza.

SK: sicuramente un grande protagonista.

CR: Maestro Krylov, quante ore al giorno riserva allo studio?

SK: Non so esattamente quante ore, dipende molto dai programmi, in genere vado dalle 3-4 ore che in alcuni casi possono diventare anche 6-8 ore giornaliere.

CR: Lei è uno di quei violinisti che studia fino all’ultimo minuto prima di salire sul palcoscenico?

SK: Direi di no, sono molto tranquillo e a meno di non avere programmi pazzeschi da eseguire, cerco di essere il più fresco possibile il giorno del concerto, cerco di riposare bene e al limite di suonare un pochino.

CR: Cosa pensa dei Conservatori italiani?

SK: I Conservatori italiani possono migliorare molto, comunque stanno facendo un buon lavoro.

CR: Cosa consiglia ai giovani musicisti?

SK: Molto semplice: appena alzati, dopo aver fatto colazione ed essersi lavati i denti, sanno che li aspetta il loro strumento musicale. Finito il tempo da dedicare alla musica, poi possono dedicarsi ad altre cose.

CR: Cosa mi dice di Bashmet?

SK: Un musicista straordinario con cui ho avuto occasione di suonare più volte, è sempre una grandissima esperienza musicale suonare con lui. Abbiamo alcuni progetti da realizzare insieme nel prossimo futuro.

CR: Si può sapere qualcosa di più a questo proposito?

SK: Sono concerti in varie città dove suoneremo insieme e dove lui avrà anche la funzione di direttore.

CR: Suonerete anche la Sinfonia Concertante di Mozart?

SK: L’abbiamo già suonata insieme e la suoneremo ancora nel futuro.

CR: Nel 2009 lei è stato nominato direttore dell’Orchestra da camera Lituana. Nel suo futuro c’è il progetto di abbandonare il violino a favore della direzione?

SK: Questo assolutamente no, quella della direzione e il violino, sono due attività che vanno di pari passo e devo dire che sono stato molto fortunato ad essere stato chiamato a dirigere questa orchestra, ma tenga presente che oltre a dirigere io suono quasi sempre con loro.

CR: Nel suo modo di suonare traspare sempre grande passione, virtuosismo non disgiunto da un buon grado modestia, si riconosce in queste impressioni?

SK: Fortunatamente ho avuto vicino grandi personalità come Rostropovich, ma anche Bashmet stesso, che a me sono apparse come persone estremamente semplici, socievoli e pratiche. Esattamente il contrario di persone piene di sè. Se uno non sapesse chi era Rostropovich, conoscendolo anche nel privato, basterebbe dire che era una persona assolutamente “normale”, una normalità fatta di simpatia, apertura mentale e grande trasparenza. Questa è stata la mia impressione, la semplicità dei grandi, no? Ho sempre avuto ben presente che queste persone che ho conosciuto nel lavoro fossero severe e che pretendevano moltissimo per tutto ciò che riguardava la ricerca artistica, ma nel privato e in generale erano persone semplici come tutti i grandi personaggi dovrebbero essere.

CR: Caro M° Krylov questa era l’ultima domanda, abbiamo finito. La ringrazio di cuore per il tempo che ha dedicato a questa intervista e spero di tornare presto a sentire lei e il suo violino. Finita questa chiacchierata cosa farà?

SK: Continuerò a studiare il Concerto per Violino n° 2 che suonerò il prossimo 25 Settembre a Budapest.

CR: Buon lavoro, Maestro!

Il violino irlandese

10 febbraio 2006

Per gli amanti della Musica d’Irlanda un’intervista a Marco Fabbri, violinista che da anni si dedica alla tradizione musicale irlandese.

Intervista a Marco Fabbri

Quando è nato il suo interesse per la tradizione irlandese?
Nel 1978 ho scoperto il Folkstudio del compianto Giancarlo Cesaroni che, in pieno Folk-revival, era il locale magico che molti ricordano. Nel 1979 Cesaroni organizzò il primo festival di musica celtica con gruppi tra i più famosi dell’epoca e fu frequentatissimo. Lì vidi per la prima volta una session e ne rimasi entusiasta. Un anno dopo il mio primo viaggio in Irlanda…

Quali sono le caratteristiche della musica irlandese?
Sicuramente la sua grande vitalità, che ha saputo rinnovarsi e accrescere il consenso anche tra le ultime generazioni; oltretutto il luogo dove vede gran parte della sua sublimazione è il “pub”, vero e proprio luogo di socializzazione dove le sessions informali sono spesso quotidiane.

Che differenza c’è tra la tecnica strumentale classica e quella richiesta da questo repertorio?
Gran parte della musica tradizionale occidentale è caratterizzata dall’uso di strumenti tipici per lo più diatonici come cornamuse e organetti.
Questo già evidenzia una enorme differenza nell’uso delle ottave e delle scale, il violino irlandese, ad esempio, viene quasi sempre suonato in prima posizione e raramente, in alcuni stili regionali come il repertorio della contea del Donegal o dei “cugini” scozzesi, vengono usate posizioni superiori.
Altre differenze tecniche derivano dalle differenti funzioni che ha la musica tradizionale, che normalmente non è suonata per essere ascoltata in un ambiente acusticamente idoneo ma per accompagnare momenti conviviali che necessitano di ritmo, timbri e dinamiche adeguate. Da questo deriva, ad esempio nel violino, un uso dell’arco ritmico e percussivo, o la capacità da parte di uno o più esecutori di dare ad un brano strutturalmente semplice un interpretazione virtuosistica basata sull’uso delle ornamentazioni ritmiche e melodiche.

Che tipo di studio comporta?
La prima cosa è sicuramente ascoltare molto, sia perché la musica tradizionale è a trasmissione orale e non scritta ma anche perché è fondamentale apprendere uno stile, cioè accenti, ornamentazioni e altro, che non sono trascrivibili e sono fortemente legati alla cultura e la personalità del musicista. Inoltre allo studio individuale sicuramente bisogna affiancare la pratica nel suonare con gli altri, per sviluppare quella sensibilità necessaria a creare l’affiatamento indispensabile a una musica normalmente eseguita all’unisono.
Nei miei seminari uso spesso un detto irlandese: “You can’t play a tune if you can’t sing it” (Non puoi suonare un pezzo se non lo sai cantare….)

Come è riuscito ad entrare nello spirito irlandese in modo così profondo?
Ho vissuto per lunghi periodi di tempo in Irlanda, Scozia e Bretagna e questo mi ha permesso di apprendere non solo la storia e lo stile della musica in sé, ma come sentirla dentro, attraverso la conoscenza di quella quotidianità della quale la musica è un’espressione. Questo è stato importante per capire anche il modo di suonare in session che è, con le sue regole non scritte, tra i migliori luoghi d’apprendimento.

Nelle musiche che esegue che importanza ha l’improvvisazione?
Nonostante oggi ci siano moltissime raccolte scritte facilmente reperibili, non è possibile stabilire quale sia l’esatta versione di un brano, possiamo dire però che una trascrizione semplificata alla semplice struttura melodica, priva perciò di qualsiasi abbellimento o notazione, può essere indicativa per l’esecuzione; per fare un esempio, nei seminari utilizzo l’ausilio di trascrizioni che io stesso preparo, ma solo perché facilitano l’apprendimento e mi permettono di lavorare sullo stile.
Il concetto d’improvvisazione è legato alla capacità del musicista di interpretare i brani con l’uso dei vari abbellimenti e piccole variazioni, spesso corrispondenti a stili regionali, simile, per certi versi, a quello adottato nella musica barocca.

Suonare a memoria arricchisce il musicista?
Credo che l’esecuzione “a memoria” sia in qualsiasi contesto musicale più vantaggiosa, favorisca cioè la libertà espressiva del musicista e nel caso della musica tradizionale è comunque alla base dell’apprendimento.

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Marco Fabbri – curriculum

Nell’estate del 1981 frequenta un seminario di “Irish fiddle” a Listowel (Co. Kerry, Irlanda) e inizia una lunga collaborazione, con passaggio obbligato al Folkstudio romano di Giancarlo Cesaroni, con numerosi gruppi della scena folk. Nell’aprile del 1985 si stabilisce a Belfast dove approfondisce lo studio della tecnica tradizionale tanto da raggiungere “notevole stima tra i musicisti locali per l’autenticità e la dinamicità del suo stile” (Belfast Telegraph, giugno ’85); ed è infatti con il gruppo Ultàn che girerà l’Europa per due anni in diverse tournée collaborando anche a seminari di danze irlandesi in Bretagna. Nel 1987, dopo la partecipazione al Folkest di S.Daniele del Friuli e al Festival Interceltico di Lorient (Bretagna) collabora con la Sedon Salvadie (musica Friulana) in due tournée nel Nord Europa e nel disco di Francesco De Gregori “Terra di nessuno”. Nel 1988 partecipa con il chitarrista di Belfast Paul Mc Sherry al Folkfestival di Barnbach (Austria). Nel ‘90 è con i Malbruk (musica Piemontese) e suona al Folk festival di Budapest.
Un anno dopo inizia una lunga collaborazione con la Scuola Popolare di Musica di Testaccio e fonda il Laboratorio di Musica di Tradizione Orale come insegnante, e con Mariano De Simone al banjo 5-corde (musica tradizionale irlandese e nord-americana) si esibisce in tutta la penisola. Nel 1994 è ospite del prestigioso Fringe festival di Edimburgo (Scozia) dove si stabilisce per sei mesi studiando più a fondo la tradizione musicale locale. Nel 1995 partecipa al Folk Festival di Edimburgo e collabora in un anno di tournée con il gruppo folk-rock “The Gang” suonando anche nel successivo CD “Fuori dal controllo”. Nel ’97 è ospite in una prestigiosa trasmissione radiofonica della BBC Northern Ireland di Belfast ed organizza a Roma tre festival di musica tradizionale irlandese (Fleadh Ceoil) invitando musicisti direttamente dall’isola verde. Alla fine degli anni ‘90 suona in diversi locali di Belfast, Derry e Dublino e tiene seminari di tecnica violinistica irlandese in Italia. Dal 2000 è presente nella “session trail” dell’annuale Trad Festival di Ennis (Co. Clare) e Gig’n the Bann di Portglenone (Co.Derry).

La tradizione musicale irlandese

Nelle antiche comunità rurali irlandesi la musica tradizionale seguiva il naturale ciclo lavorativo agricolo. Oggi si è spinta oltre queste usanze e può essere ascoltata nelle sessions dei pub, nelle serate di danza, nei convivi sociali e nei numerosi festival annuali delle varie regioni.
Sebbene le moderne tecnologie di registrazione, la diffusione mediatica e il crescente interesse commerciale abbiano contribuito a una maggiore espansione della tradizione con inevitabili contaminazioni, la musica strumentale possiede ancora riferimenti precisi negli stili delle varie contee.
Una gran parte del repertorio, soprattutto melodico, è databile tra il XVIII e il XIX secolo ed è oggi eseguito su numerosi strumenti tra cui il flauto traverso d’ebano, il Fiddle (termine inglese per indicare il violino nella tradizione orale), la Uillean pipe (cornamusa irlandese), il Tin Whistle (flauto diritto di metallo), l’Organetto diatonico, il Banjo Tenore, la Concertina (piccolo organetto di forma esagonale o ottagonale). Con l’eccezione del Bodhràn (tamburo a cornice suonato con un piccolo bastoncino impugnato nel mezzo), le bones (sorta di nacchere ottenute da due costole di bovino) e il piccolo set della batteria usata nelle Ceili bands (paragonabili alle nostre bande di ottoni e legni) gli strumenti a percussione sono di minore importanza lasciando spesso alla melodia e l’interpretazione la responsabilità ritmica.
I brani da danza più comuni sono Reels, Jigs, Hornpipes, Slides e Polkas. Generalmente consistono di due segmenti da otto battute, ogni parte è suonata due volte ripetendo la sequenza più volte prima di passare, senza soluzione di continuità, ad un nuovo pezzo.
Sono molto diffuse anche le Slow Airs (melodie lente), basate di solito sulle Sean Nos (canzoni in irlandese).

a cura di Susanna Persichilli