02 maggio 2011
Vi propongo l’intervista che ho fatto al Quartetto di Cremona, una delle formazioni “giovani”, a mio parere più interessanti del nostro panorama musicale. Questi musicisti sono giovani, hanno energia da vendere, ma soprattutto hanno talento e voglia di comunicare con il mondo, Con la precedente intervista dedicata al solista M° Krylov, penso di offrire uno spaccato della vita dei musicisti che normalmente non si avverte durante le esecuzioni registrate e dal vivo. Sono convinto che la parola viva dei protagonisti offrirà una migliore comprensione della Musica e degli strumenti con cui è suonata.
Claudio Rampini: questi sono i vostri primi 10 anni in quartetto. Siete contenti?
Quartetto di Cremona (Cristiano Gualco): Sì, anche se 10 anni per un quartetto non sono moltissimi, altri quartetti sono più anziani del nostro e possono contare su carriere ultra decennali, ma considerando che fare solo quartetto per 10 anni vuol dire mettere nel lavoro tutto quello che hai. Chi conosce il mondo del quartetto comunque sa che questa è una realtà non facile sotto molti punti di vista, sia per trovare le persone che vogliono farlo con te, questa è la prima cosa, e per riuscire, perlomeno i primi anni, a sopravvivere di un lavoro del genere.
CR: Non ricordo bene, ma mi sembra che non ci siano stati cambiamenti nel vostro organico, o sbaglio?
QC: Un cambiamento c’è stato quasi da subito, il primo anno. Io e Simone, il violista, che era già all’epoca mio amico di vecchissima data, eravamo allievi della Scuola Stauffer di Accardo, a Cremona. Ebbi l’idea di formare un quartetto e lo proposi a Simone, dato che alla Stauffer si poteva trovare della gente valida, trovammo le altre due persone in seno all’Orchestra da Camera di Accardo. Si trattava del violoncellista Giovanni Gnocchi, che oggi ha fatto una bella carriera nella Camerata Salzburg, e del violinista Stefano Ferrario, che attualmente è spalla nell’orchestra Haydn di Bolzano. In seguito si sono susseguite diverse persone nel ruolo di secondo violino. Ad un certo punto secondo e cello ci hanno lasciato e per puro caso abbiamo trovato altri due genovesi come me e Simone, che hanno avuto desiderio di iniziare questa nuova attività artistica. A dire il vero non avevo molta fiducia che si potesse continuare, perché perdere due componenti in un colpo solo è stata una dura prova, ma al tempo stesso abbiamo avuto la fortuna di trovare altri due musicisti molto determinati, e soprattutto motivati nel voler fare quartetto come lo volevamo fare noi.
CR: E come lo volevate fare voi il quartetto?
QC: All’inizio non avevamo idea di come fare un quartetto, e forse non ce l’abbiamo nemmeno ora, il quartetto resta comunque un’idea che si evolve nel tempo. Abbiamo avuto un incontro con Piero Farulli, che sicuramente sapeva molto bene come fare un quartetto, e già agli inizi quando andammo con la prima formazione ci chiedeva “ma voi quanto provate?”, noi rispondemmo “due o tre volte la settimana” e lui rispose “e gli altri giorni cosa fate?”. Da lì abbiamo iniziato a capire che fare quartetto richiede dedizione totale e questo per un ragazzo non è facile da capire, e così è stata la prima cosa che abbiamo messo in chiaro ai due nuovi componenti. Loro hanno accettato di buon grado perché avevamo già fatto qualche concerto ed hanno avuto fiducia da subito che la cosa poteva crescere ed evolvere in modo positivo. Sono fiero di poche cose nella mia vita e dopo dieci anni sono sicuro che il quartetto è una queste, stare insieme tutto questo tempo e avere condiviso tanti viaggi e tante esperienze, concerti e concorsi importanti, essere ancora qui dopo dieci anni è una grande soddisfazione.
CR: Sicuramente, dopo dieci anni aver ancora voglia di fare musica insieme con la prospettiva di affrontare serenamente anche i prossimi dieci, venti o trenta, è un bel traguardo.
QC: Siamo fortunati, altri quartetti nostri coetanei non hanno un buon rapporto al loro interno, e anche a noi sembrava piuttosto difficile che si potesse arrivare dopo sette o otto anni di convivenza musicale riuscire ancora sopportarsi. Invece noi abbiamo un rapporto bellissimo, ci divertiamo un sacco quando andiamo in giro, ci sono un paio di volte all’anno momenti in cui ci si scorna, ma solo perché si è particolarmente stanchi o perché si sta molto in giro, in queste occasioni può capitare una rispostaccia, ma ci divertiamo ancora parecchio e abbiamo imparato a non esagerare nei momenti critici come quelli in cui si è stanchi. Quindi tutta questa difficoltà nello stare insieme in quartetto non l’abbiamo mai avuta.
CR: Il vostro è forse un caso più unico che raro, perché molti quartetti famosi, vostri illustri predecessori, hanno sicuramente avuto una vita più tumultuosa.
QC: Deve esserci un buon accordo anche fuori del palco, perché quando suoni e non riesci a guardare una persona negli occhi, la musica sicuramente ne risente.
CR: Credo che anche per la musica valga il concetto di “evoluzione per conflitti” che forse è piuttosto faticosa, ma anch’essa ha i suoi lati positivi. La cosa interessante è che comunque voi siete la dimostrazione vivente del fatto che per fare musica bene insieme non c’è affatto bisogno di scannarsi.
QC: No, infatti. Una cosa che è stata importante per noi è che siamo stati subito seguiti da una o più persone esperte che ci hanno guidato lungo un percorso. Il rischio di non avere una guida è quello dell’instaurarsi di una competizione tra i musicisti che assolutamente non giova né alla musica, né ai rapporti. Quindi ai quartetti più giovani di noi che ci chiedono consigli su come iniziare, suggeriamo sempre di trovare una guida che permetta loro di curare subito l’equilibrio tra le parti. Noi abbiamo trovato all’inizio Piero Farulli, che ci ha dato una specie di “infarinatura morale”di come stare in quartetto, poi ci sono stati gli anni con Hatto Beyerle (Viola e fondatore del Quartetto Alban Berg – ndr), e quando hai uno sopra di te che ti dà delle linee guida musicali, tutti lavoriamo per raggiungere un obiettivo comune, quindi lo spazio per la discussione e la lotta all’interno del quartetto è minore, si cerca semplicemente di capire quello che viene insegnato. Questo contribuisce molto ad abbassare le conflittualità.
CR: Sono già tre le personalità di rilievo che spiccano nel tuo racconto: Accardo, Farulli, Beyerle. Di preciso che ruolo hanno avuto queste figure?
QC: Accardo è stato fondamentale per conoscerci, io lo cito sempre perché ha avuto il merito di aver costituito questa scuola a Cremona, un posto dove si possono incontrare molti musicisti di talento. Grazie ad Accardo siamo riusciti a formare il nostro quartetto. Subito dopo abbiamo fatto l’audizione a Fiesole, un posto da cui anche oggi non si può prescindere, se si vuole fare un percorso di studio serio. Beyerle è un grandissimo studioso soprattutto del linguaggio dei classici e quindi noi abbiamo studiato benissimo Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, ci ha dato una grossissima impronta su questi autori, per un quartetto è fondamentale, ancora oggi viviamo grazie a questo contributo. Per noi è stato fondamentale, come musicisti italiani, ognuno con un carattere molto diverso, avere una base comune dalla quale partire per la ricerca dello stile. Oggi facciamo tante cose che forse a lui non piacerebbero, però non possiamo mai ignorare che il nostro stile sia iniziato da lì.
CR: Parliamo un po’ di strumenti: possiedi sempre quel meraviglioso violino di Nicola Amati, con cui ti ho visto e sentito suonare la prima volta nel 2007?
QC: Sì è ancora lì, è un Nicola Amati del 1640 ed è in ottima salute. E’ uno strumento che apprezzo sempre di più anno dopo anno, devo dire che mi piace moltissimo.
CR: Il secondo violino che strumento possiede?
QC: Si tratta di una acquisizione recentissima, degli ultimi due o tre mesi, un prestito da parte della Fondazione Lam in collaborazione con la Fondazione Stradivari di Cremona. E’ un Giovan Battista Guadagnini del 1757, ex Pochon, un bellissimo strumento, veramente eccezionale.
CR: Mi ricordo però che fino a qualche tempo fa Paolo Andreoli suonasse con uno strumento moderno o di un liutaio contemporaneo.
QC: All’inizio Paolo suonava uno strumento di Pio Montanari, anche questo un gran bel violino, poi è passato ad uno strumento di Gotti degli anni ’50 del 1900, ed infine c’è stato l’approdo al Guadagnini, che ho suonato anch’io e che trovo fenomenale. Molto più potente del mio, quindi meglio per il secondo violino che ha bisogno spesso di più voce dall’interno.
CR: Può essere che questo Guadagnini abbia un carattere un scuro sui bassi?
QC: Sulle corde alte è un tipico violino da solista, sulle corde basse ha una bella voce baritonale.
CR: Quindi anche questo Guadagnini non tradisce la fama del suo autore.
QC: Assolutamente no, anzi, agli inizi ero anche un pochettino invidioso, poi ho visto che nel quartetto funziona benissimo perché mi posso appoggiare meglio su di lui. Sono stato molto contento che Paolo abbia potuto crescere e migliorare anche grazie a questo strumento.
CR: Complimenti, sei il “primo” primo violino di un quartetto che esprime soddisfazione perché il suo secondo ha uno strumento con più voce!
QC: Sai, il primo violino non ha bisogno poi di tutta questa potenza, mentre il secondo violino nel suo ruolo di “appoggio” rende addirittura migliore il suono del mio strumento. Ben venga se Paolo ha un violino così bello e potente.
CR: Io penso che i grandi strumenti non si misurino necessariamente a decibel, ho come il presentimento che il tuo Amati abbia un patrimonio di armonici e quindi una capacità di far correre il suono, che probabilmente rende i due strumenti molto vicini da un punto di vista qualitativo. In buona sostanza non è necessario tanto avere un cannone nelle tue mani, ma semplicemente una tavolozza di colori completa con cui eseguire tutte le sfumature di cui sei capace. Quante volte è successo che in un gruppo da camera ci sia il problema di suonare un “piano” piuttosto che un “forte”, è per questo che penso che un violino che suoni bene debba essere presente in tutte le situazioni che la musica richiede. In una parola: c’è bisogno di “dinamica”, piuttosto che di potenza bruta. Quindi anche se non l’ho sentito questo Guadagnini, mi aspetto in ogni caso un bel connubio dal quale siete riusciti ad ottenere un bell’impasto di suoni, pur tenendo conto che esso appartiene ad un periodo storico ed è di tradizione molto diversa rispetto all’Amati. Insomma sono curioso di ascoltarvi in concerto per sentire questo nuovo suono.
QC: Infatti anche io sono curioso di sentire cosa ne pensa il pubblico. La differenza finora è stata notata e gradita, Paolo ora non deve più sforzarsi per interpretare alcuni passaggi impegnativi, in certe situazioni il suono deve sembrare uno solo, ed ora questo è un obiettivo più facilmente raggiungibile grazie al Guadagnini. CR: E la viola, è sempre quella costruita da Alberto Giordano di Genova?
QC: Sì è sempre la stessa e Simone ci è molto affezionato, bisogna anche dire che finora ha svolto egregiamente il proprio ruolo, sia dal punto di vista dell’affidabilità, che da quello della qualità. Tu sai quanto è difficile per un violista trovare uno strumento antico, abbiamo avuto occasione di provarne diverse, ma spesso si trattava di strumenti di misura piccola, con un ottimo suono, ma di volume non soddisfacente.
CR: Anche il Quartetto Italiano ha svolto interamente la propria carriera con una viola moderna costruita dal fiorentino Sderci. Credo che i loro più di trent’anni di carriera possano costituire un bell’esempio.
QC: Sicuramente, nel quartetto c’è poi la questione dell’amalgama e di come vengono suonati gli strumenti, magari uno strumento meno bello preso da solo mostra tutti i suoi limiti, ma nel quartetto si trasforma e contribuisce alla formazione di un impasto sonoro unico ed irripetibile.
CR: Ciò non toglie tuttavia che se un domani vi trovate a disposizione una delle stupende viole di Andrea Guarneri, non costituisca un ulteriore balzo in avanti della vostra qualità. Certamente al vostro livello, penso sia di gran lunga più influente e traumatico cambiare il violista, piuttosto che la viola.
QC: Certamente.
CR: Ed ora spendiamo qualche parola per il violoncello.
QC: E’ uno strumento di Marino Capicchioni del 1974, che purtroppo ha avuto un incidente proprio di recente. Eravamo in una sala piuttosto piccola, Giovanni nel girarsi ha urtato contro una sedia, lo strumento è caduto e si è staccato il manico. Purtroppo la rottura ha riguardato altre parti dello strumento e la riparazione è piuttosto impegnativa, la prossima settimana sarà pronto e speriamo che il suono non sia cambiato.
CR: Mi dispiace tantissimo, questi purtroppo sono gli incerti del vostro mestiere.
QC: Purtroppo!
CR: A parte questo spiacevole incidente, i vostri sono comunque strumenti su cui potete contare senza troppi problemi?
QC: In genere non abbiamo mai troppi problemi, ma se tu intendi la resa dello strumento al cambiare delle stagioni e degli umori personali, proprio oggi pensavo che ogni tanto ho questo tipo di problemi. Ma è così e non deve diventare un’ossessione, molte volte sono proprio io ad essere più stanco e un po’ più duro e penso che il violino non renda al massimo. Mi basta mezz’ora di studio per rendermene conto, altre volte invece lo sento che è particolarmente umido o particolarmente secco, il violino non è lo stesso di sempre. Però non sono così sicuro che queste variazioni possano essere veramente sentite anche dal pubblico, magari qualcuno esperto di strumenti può captare qualcosa, ma credo che sia più che altro una sensazione dello strumentista.
CR: Ho sempre pensato che tra un violinista stanco e un violino che suona in una stanza umida, sia sempre il primo a farsi notare maggiormente.
QC: Concordo. E’ comunque da mettere in conto che la mia percezione dello strumento non è sempre la stessa, ci sono momenti in cui penso che sia affidabile al 100% e anch’io percepisco di essere allo stesso livello di forma, e altri momenti in cui questa percentuale cambia. Penso che questo faccia parte del nostro lavoro quotidiano di mettersi sempre in discussione.
CR: Quando provate, capita mai di fare osservazioni sugli strumenti dei colleghi? In altre parole: vi capita mai di porre l’attenzione sui vostri strumenti oltre alla musica che suonate?
QC: Se fossimo più esperti di liuteria forse capiterebbe, io non sarei capace di abbinare il difetto di un suono ad un difetto di montatura, di arco o di catena, penso che nessuno di noi sia capace di questo. E’ capitato invece che tutti e quattro i nostri strumenti suonassero in modo poco chiaro, e quindi abbiamo capito che c’era qualcosa nel clima o qualcosa del genere, ma andare nello specifico assolutamente no. Quando è stato acquisito il Guadagnini di Paolo, abbiamo subito percepito la differenza, perché comunque aveva uno strumento moderno con caratteristiche molto diverse, ma questo fu dovuto essenzialmente al tipo di suono che lo strumento è stato capace di esprimere fin da subito. Forse con Giovanni (il violoncellista – ndr), è venuto fuori questo discorso della messa a punto, essendo lui molto istintivo non si cura molto della montatura, è successo che noi da fuori percepissimo qualcosa da correggere relativo al ponticello o alle corde, e gli abbiamo fatto presente che forse era il caso di fare visita al liutaio. Per il resto noi stiamo sempre piuttosto attenti ad avere lo strumento in forma, se avverto che c’è qualcosa che non va, prenoto subito un appuntamento con il liutaio.
CR: Quindi la figura del liutaio è abbastanza presente nella vostra vita professionale.
QC: Certamente, io porto il mio strumento a fare un check up a scadenze regolari, ci tengo che lo strumento sia sempre al 100% perché è da esso che dipende il mio lavoro.
CR: Il tuo Amati ha dovuto subire di recente lavori importanti, come ad esempio il cambio della catena?
QC: No, lo strumento ha avuto un periodo di quasi completa inattività durato 25 anni, in questo ambito non ci sono stati interventi. Tuttavia Giordano mi ha detto che tra qualche anno sarà necessario ripristinare l’angolo del manico, perché tende un po’ ad abbassarsi sulla tavola armonica.
CR: Questo mi sembra un fenomeno abbastanza tipico degli strumenti antichi, a volte è necessario anche ripristinare la bombatura della tavola armonica, che tende a gonfiare sotto la tastiera e sotto la cordiera. Ma cambiamo leggermente argomento: che ne pensate della liuteria contemporanea?
QC: Noi abbiamo rapporti stretti con la Fondazione Stradivari di Cremona, quindi ci sono passate per le mani molti strumenti di liutai contemporanei.
CR: Avete fatto anche parte di giurie nei concorsi di liuteria?
QC: No, però abbiamo fatto un concerto con gli strumenti vincitori della Triennale. A questo proposito vorrei dire che ci sono certi strumenti moderni in grado di offrire tantissimo in termini di suono, al punto che alcuni importanti quartetti contemporanei preferisco questo tipo di strumenti a quelli antichi.
CR: Mi viene in mente il Quartetto Emerson.
QC: Esatto, loro suonano strumenti di Samuel Zygmuntowicz. Ma ad esempio c’è anche Lukas Hagen che possiede uno Stradivari prestatogli da una banca, che attualmente preferisce suonare con uno strumento moderno. Quindi se uno come Hagen ha scelto di suonare su uno strumento contemporaneo, vuol dire proprio che questo strumento è in grado di offrire la qualità di cui un concertista ha bisogno.
CR: Vedo comunque che nella storia dei quartetti moderni e contemporanei gli strumenti di recente costruzione vi trovano spesso spazio.
QC: Sono convinto che suonare uno strumento antico importante dia anche un po’ di prestigio a chi lo suona, perché questo è un aspetto che non manca mai di colpire la fantasia del pubblico, però un buon strumento moderno è in grado di offrire risultati di assoluta eccellenza. Quindi a mio parere è anche nella testa del musicista che il violino antico possa apparire necessariamente migliore di quello moderno. Ma non sempre è così. Ho avuto occasione di suonare in concerto eccellenti strumenti antichi, si trattava dello Stradivari “il Cremonese” 1715, e del Guarneri del Gesù “Stauffer” 1734, in questo caso non so quanti strumenti moderni potrebbero eguagliare il loro suono, perché essi offrono il suono che senti dai grandi solisti di tutti i tempi, di grande chiarezza e limpidezza, al tempo stesso rotondo e tagliente. Invece, sempre nell’ambito degli strumenti antichi, scendendo di categoria possiamo abbastanza tranquillamente trovare strumenti moderni in grado di offrire altrettanta qualità, soprattutto in quartetto.
CR: Ti faccio una domanda un po’ scontata: quale fra i due, il Guarneri e lo Stradivari, era più facile da suonare?
QC: Senz’altro il Guarneri.
CR: Quindi confermi anche tu che i Guarneri offrano un approccio più immediato da parte del musicista.
QC: Nell’occasione in cui li abbiamo suonati, Paolo aveva il Guarneri ed io lo Stradivari, ho avuto opportunità di fare confronti ed ho constatato che il Cremonese è più impegnativo da suonare. Tra il mio Amati e questo ho sentito subito una differenza tecnica, ossia piccole differenze nella smanicatura. Ma appena ho preso il Guarneri, le mie dita sono cadute subito nel posto giusto, una facilità di intonare veramente sorprendente. Non so esattamente da cosa questo dipenda, ma certamente con lo Stradivari anche durante il concerto ho dovuto fare più attenzione, naturalmente parlo del mio approccio fisico con lo strumento, che avrebbe richiesto più di un giorno per essere capito in modo approfondito. Ma confermo che anche in questo caso la qualità del suono era a livelli eccelsi.
CR: Mi sembra evidente da quello che dici che lo Stradivari non faccia eccezione alla sua fama, ossia che richiede sempre un’attenzione molto particolare da parte di chi lo suona.
QC: Credo di sì, poi considera che era montato con corde in budello, alle quali io non sono più abituato da parecchio tempo.
CR: Che tipo di corde usate abitualmente?
QC: Io uso le Dominant e Paolo ultimamente le Evah Pirazzi, in comune abbiamo il Mi Lenzner, che pur avendo vita abbastanza breve ha una qualità che ci piace molto. Paolo con il violino precedente aveva bisogno di esprimere più decibel e quindi le Evah Pirazzi facevano al suo caso, ma con il Guadagnini sta pensando di trovare qualcos’altro perché con questo strumento non ha più bisogno di chissà quali prestazioni dal punto di vista delle corde. Simone usa le Spirocore morbide e per il La una Obligato media. Giovanni invece usa due Larsen e due Spirocore per i bassi.
CR: Ed ora parliamo un po’ di musica, ti faccio una domanda banale: che differenza c’è tra suono e musica?
QC: Il musicista deve essere in grado di produrre un bel suono. A seconda dei compositori che si interpretano, cambia la musica, ed il suono che ne deriva non si riesce a cambiarlo nemmeno volendo. Sto pensando a Shostakovich, ma anche ai quartetti di Haydn e grazie a quel particolare equilibrio che questo autore è riuscito a dare alla sua musica, possiede quel suono “giusto” che noi oggi definiamo come “suono del quartetto”. Mentre se prendi un quartetto di Beethoven, il suono cambia ancora, tuttavia non sei tu a scegliere il suono, piuttosto è il compositore che ti guida verso una certa meta e una certa tessitura che lui ha concepito. Quindi per me il suono deve essere il veicolo con cui esprimere il messaggio del compositore, avere un bel suono a prescindere non è nelle nostre corde.
CR: Come si è evoluto il suono del Quartetto di Cremona?
QC: Prima di tutto dovresti chiedere SE si è evoluto! Ci pensavo proprio in questi giorni, siamo reduci da un concerto che abbiamo tenuto nella Sala Sinopoli al Parco della Musica di Roma, una sala enorme da 1200 posti, che ha anche una bella acustica, a conclusione del concerto abbiamo suonato l’ultimo quartetto di Schubert, quello in Sol Maggiore, mentre suonavamo stavo pensando alla differenza di suono da realizzare in una sala da 200 posti e una da 2000. E’ una domanda che ho fatto a suo tempo anche a Beyerle, lui rispose che bastava avere un pochino più di contatto quando la sala è molto grande, penso che stiamo cominciando solo ora, perché questo è un processo che non finisce mai e fatto di strade misteriose, che il nostro suono ha in questo momento una base più concreta. Non so se tu hai presente il suono del quartetto Alban Berg, che avevano i loro momenti di grande poeticità, ma come base di suono erano sempre molto “terreni”, questo è un aspetto di loro che mi piaceva moltissimo, nel senso che avevano un contatto molto diretto con lo strumento, senza inutili sottigliezze. Questo è un aspetto che stiamo cercando e stiamo tentando di fare nostro, anche nell’ottica di suonare in spazi molto grandi dove il suono di un quartetto rischia di perdersi. Quindi tu devi avere un contatto con lo strumento che ti permetta di essere ascoltato anche in fondo alla sala, non so se poi ci si riesce veramente, ma è a questo che bisognerebbe puntare. Uno dei lavori che stiamo facendo è quindi sulla proiezione del suono, per quanto poi riguarda l’evoluzione del nostro suono, questo è legato al modo con cui suoniamo la nostra musica e di come stiamo insieme. In questo ambito il nostro potere decisionale è ridotto al minimo, perchè ci sono aspetti del suono che possono comparire o meno a seconda delle occasioni. Da un paio d’anni ho notato che quando siamo sul palco siamo più coesi e questo è molto ben recepito dal pubblico, ma sono cose di cui non parli mai, quelle di come deve essere il suono di quartetto, perchè sono argomenti in cui la soggettività la fa sempre da padrone. Ma a forza di stare insieme, dopo dieci anni, qualcosa in comune lo si ha in ogni caso. Non ricordo se nel passato abbiamo mai discusso sul fatto di avere un suono piuttosto che un altro, ma all’inizio abbiamo sicuramente trattato questi temi e su questi ci siamo evoluti, sicuramente nel futuro ci sarà bisogno di rimettere a fuoco questi concetti. Ti confermo tuttavia, che lo sviluppo del suono è sostanzialmente autonomo, noi possiamo solo sperare che nel tempo sia migliorato insieme alla nostra musica.
CR: Hai parlato di proiezione sonora, come si cura l’equilibrio di un quartetto? Come si capisce la proiezione del suono e quel che arriva veramente al pubblico?
QC: A volte qualcuno di noi si allontana per verificare quel che arriva nei posti occupati dal pubblico, anche se questo restituisce una visione molto grossolana della situazione, perchè per capire bene nel quartetto ci devi essere anche tu. Ci registriamo spesso in concerto e in prova, per capire come sono gli equilibri, anche se questo non restituisce una immagine sonora fedele alla realtà. Un complimento che ci hanno sempre fatto è stato quello che nel suonare sembra che nessuno di noi si nasconda, nel senso che si intravede la partitura in ogni caso, anche se non tendiamo a nasconderci solo per far uscire gli altri. Secondo me è una bella cosa quando tutti e quattro suonano in modo convinto, anche per loro stessi, consapevoli tutti di quella che è la linea principale da seguire, se ce n’è una che deve uscire rispetto alle altre, però non lo si fa uscire togliendo, ma piuttosto accentuando una cosa che un’altra. Insomma senza fare un lavoro di cancellazione di parti non importanti, cosa che per il nostro modo di suonare non funziona. Penso che sia una cosa un po’ italiana, ed anche se questo è molto nella fantasia di chi ci ascolta all’estero, ci siamo spesso sentiti dire che il nostro è un “suono italiano”. Non ho mai capito bene cosa è questo suono italiano, però dicono che noi ce lo abbiamo e probabilmente ha a che fare con una certa cantabilità, cosa che un quartetto tedesco può avere in una dimensione minore, ma non mi so spiegare con certezza questo aspetto.
CR: Avere il suono italiano, è comunque un bellissimo complimento.
QC: Lo spero, sono sempre stato un po’ scettico su questo concetto di suono italiano, perchè quando suoniamo un brano di repertorio, questo deve avere il suo suono, non è possibile che uno suoni Bartòk con una cantabilità italiana e qualcun altro lo suoni all’ungherese, è sicuro che uno dei due sta sbagliando. Quindi la nostra preoccupazione quando studiamo un pezzo nuovo è quella di far venire fuori lo stile del compositore.
CR: La prima volta che ci siamo incontrati, dopo avervi ascoltato sono venuto a farvi i complimenti perchè ho creduto di riconoscere nelle vostre note, l’impronta del quartetto classico, da amante della musica noto abbastanza bene le differenze tra i vari quartetti e procedendo per sottrazione forse capisco ancora meglio quello che non è il suono italiano. Ad esempio, alcune esecuzioni del Quartetto di Tokyo al mio orecchio le trovo eccessive.
QC: Capisco quello che vuoi dire, io ho sempre avuto una grandissima ammirazione “per differenza”. Bisogna sempre distinguere quella che è l’esecuzione dal vivo, dalla registrazione, perchè i suoni registrati sono spesso più belli di quelli dal vivo, e questo vale un po’ per tutti, anche per il Quartetto di Tokyo e il Quartetto Artemis, definibili come “ultra efficaci” nel modo di suonare, di cui ho sempre apprezzato la perizia e l’equilibrio. Ascoltando il Quartetto Italiano nel loro repertorio migliore, come Beethoven, Schubert, Brahms, mi sembra di capire che fossero in grado di dare un particolare afflato a tutta la musica che suonavano, è forse proprio una questione di cantabilità e di poetica del suono, loro lo possedevano e che altri quartetti contemporanei e successivi non hanno più avuto. Se questo è quello che si avvicina di più al concetto di suono italiano, allora lo si può prendere come un complimento bellissimo, se invece lo si prende come il musicista italiano abituato a cantare tutto, allora sento il bisogno di prenderne le distanze. Se il suono italiano è un modo di interpretare la frase con un suono non solo tecnicamente bello, allora questa sarebbe una cosa che ci soddisferebbe moltissimo. Noi cerchiamo di realizzarlo, anche se non so fino a che punto ci riusciamo.
CR: Forse si può semplicemente dire che il suono italiano è quel suono che dimostra di avere un carattere. Punto e basta.
QC: Ecco! Tra l’altro, se continuano a farci questa osservazione sul “suono italiano”, qualche ragione può esserci, forse è difficile da italiano riuscire a sentire questa cosa perchè non c’è il necessario distacco. Anzi, c’è stato un tempo in cui sentendomi dire questa cosa, quasi mi arrabbiavo, perchè con tutto lo studio sullo stile, su Haydn, su Schubert, se alla fine ci dicono che abbiamo il suono italiano, allora tutto questo studio non serve a nulla. Ma poi ho capito che il suono non c’entra necessariamente con lo stile, puoi suonare una cosa con lo stile giusto ma con un suono di carattere più italiano, le due cose non entrano in conflitto. Beyerle ci diceva, quando affrontavamo i contrappunti di Bach e i quartetti di Haydn, musiche che sono state entrate tutte nel ciclone delle prassi esecutive più disparate, che il fatto che suoni una frase con vibrato o senza vibrato non va ad incidere sullo stile della musica che suoni, nel senso che se tu consideri il vibrato come parte integrante del suono allora questo aspetto può forse andare meglio per un repertorio più novecentesco, ma è la lingua che c’è nella musica che dà lo stile, e questo non è dato da una oscillazione di vibrato in più o in meno. In Haydn la questione dell’articolazione è importantissima perchè viene dalla lingua parlata e se non articoli niente e suoni senza vibrato, tu comunque non suoni in stile. Se, al contrario, riesci a dare la giusta pronuncia alle frasi di Haydn e ci metti il vibrato, lo stile sarà comunque salvo, ossia verrà suonato con una espressione probabilmente maggiore rispetto alla prassi del tempo, ma lo stile rimane invariato.
CR: Avete mai avuto l’idea di suonare Mozart o Haydn su strumenti cosiddetti “originali”?
QC: Non ci è mai venuto in mente proprio per il motivo che ti stavo dicendo, perchè sono fermamente convinto che si possa suonare con uno stile corretto senza per forza usare strumenti ed archi barocchi. Un purista potrà storcere il naso rispetto a quello che sto dicendo, ma gli esempi di grandissime esecuzioni di Haydn da parte di quartetti moderni suonati con strumenti moderni ci fa capire che la musica non ne risente affatto. Ad esempio l’Ensemble Archibudelli, in cui suona anche il violoncellista Anner Bylsma, lì sono suonati strumenti antichi montati al modo antico, ci ha colpito moltissimo per l’interpretazione di Haydn, non tanto per il suono diverso, quanto per la freschezza dell’articolazione e la velocità con cui eseguono certe frasi. Questi aspetti possono essere ripresi senza problemi anche sugli strumenti moderni. I luoghi comuni sono molti, e sono da sfatare in un senso e nell’altro, ad esempio il pensare che Brahms debba essere eseguito vibrando molto è un errore. Il grande Fritz Kreisler che eseguì un’audizione presso i Wiener Philarmoniker fu scartato perchè vibrava. Il libro del buon suonatore dice che Haydn non va vibrato e Brahms va vibrato, mentre in realtà nessuna delle musiche di questi due compositori dovrebbe essere vibrata, perchè ai tempi di Brahms i vibrati che abbiamo oggi non esistevano, e all’epoca era probabilmente considerato un difetto il vibrare. Quindi al giorno d’oggi noi abbiamo il compito di cercare il carattere dell’epoca riuscendo a trasmetterlo con i mezzi oggi a nostra disposizione. Se paradossalmente riuscissimo a suonare la musica esattamente come all’epoca in cui fu scritta, ho qualche dubbio sul fatto che si riuscirebbe a godercela. Ad esempio, certe dissonanze oggi a noi non fanno più effetto, dopo le dissonanze di Schoenberg, di Berg, siamo fin troppo svezzati in proposito, queste dissonanze noi le proponiamo leggermente esasperate, in modo che l’ascoltatore di oggi le percepisca in modo simile all’ascoltatore dell’epoca. Ovviamente quanto dico è confutabile in qualsiasi momento da un musicologo che studia strumenti antichi, ma sono convinto che la prassi esecutiva moderna sia parte integrante del nostro patrimonio e abbia essa stessa dignità d’esistere.
CR: La prima volta che vi ho ascoltato sono rimasto colpito dalla “Canzona di Ringraziamento” del quartetto opera 132 di Beethoven, poi quando ci siamo incontrati mi hai parlato dell’aspetto retorico e misterioso della musica di Beethoven. Ti spiace riprendere l’argomento, e se possibile, cercare di chiarirlo?
QC: L’aggettivo “retorico” oggi ha un carattere negativo, ma nella musica è diverso. Se noi prendiamo le composizioni di Haydn e del primo Beethoven, queste sono basate sulla retorica, nel senso che alle loro spalle si avvertono gli influssi della musica “parlata”. Se tu ascolti un cantante o un attore, la punteggiatura, le attese, la pronuncia delle parole, se noi applichiamo tutto questo alla musica, in teoria otteniamo l’articolazione di cui parlavo prima a proposito di Haydn, ossia massima la chiarezza espositiva. Anche in Mozart questo è molto evidente. Successivamente, Beethoven ha prodotto un cambiamento di stile collocabile grosso modo dal quartetto op. 59 in poi, ha dato in questo senso un vero e proprio giro di vite, fino agli ultimi quartetti, dove maggiormente si percepisce il “mistero”. Ma bisogna precisare che questa dimensione di mistero era presente in tutte le epoche, anche se nel 1700 questo veniva espresso in modo più intellettuale, o forse più meccanico e compositivo, oserei dire. Nel Beethoven dell’opera 130, 132 o nella “Cavatina” si percepisce nettamente questo mistero umano che egli riusciva a mettere nella musica, è quel mistero a cui tutti ci troviamo di fronte nella vita, che sia una cosa bella o brutta. Nell’opera 132 questo si sente molto, nella “Canzona di Ringraziamento” si avverte lo sguardo dell’essere che riprende forza, la cosa grande di Beethoven è l’essere riuscito ad aprire una finestra su questo mistero, che è veramente difficile da mettere in musica. In particolare questo pezzo è difficile da suonare perchè non puoi concederti nessuna distrazione, così come pure nei quartetti tardi di Schubert, devi esserci veramente dentro per farli funzionare. Quello che devi esprimere è una esperienza umana, se non hai voglia di suonarli è molto difficile che tu riesca a comunicare qualcosa.
CR: C’è stata una evoluzione del vostro Beethoven da quando vi ho ascoltati la prima volta nel 2007?
QC: Abbiamo ripreso a studiare Beethoven proprio in queste ultime settimane, anche in previsione del fatto che tra due anni eseguiremo l’integrale dei suoi quartetti. All’inizio il quartetto op. 59 ci sembrava impossibile da suonare, sicuramente un grande impegno per il primo violino, ma anche nell’insieme sono presenti grandi difficoltà, specialmente per quello che riguarda il secondo e l’ultimo movimento. La cosa che ci ha stupito è che avendolo non più eseguito per qualche anno, tutte le cose che all’epoca ci sembravano impossibili, sono venute tutte senza difficoltà, questo vuol dire che 10 anni di esperienza anche nella musica contemporanea forse non sono passati invano. Dal punto di vista dell’interpretazione abbiamo studiato il quartetto op. 127, il mio preferito in assoluto, e tutti gli altri a seguire, quello che ora è cambiata è una concezione comune sul Beethoven compositivo che prima non avevamo. All’inizio dovevamo analizzare battuta per battuta cosa fare e perchè farlo, mentre adesso riusciamo ad individuare più velocemente come inquadrare il pezzo. Inoltre quel che è cambiato è il nostro con il pubblico, complice il fatto che ora suoniamo in modo non preoccupato rispetto all’inizio, ci sentiamo molto più a nostro agio.
CR: E delle giornate “no”, tipiche di ogni musicista, in quest’epoca di interpretazioni registrate in modo cristallino e perfetto, che mi dici?
QC: Mi capitano spesso periodi in cui ho voglia di fare musica, come ad esempio quello attuale, stasera suoneremo il Quartettsatz di Schubert, riprendi questi pezzi dopo un po’ di tempo che non li suonavi e riscopri delle cose nuove. Questo è il lato bello del mestiere. Poi ci sono quelle occasioni in cui sei in giro per così tanto tempo e con tanta stanchezza sulle spalle, per cui è inevitabile sentire attenuarsi un poco il fuoco sacro dell’arte, non dura per mesi, ma per due o tre concerti senti che non ce la fai proprio più e lì subentra la professionalità. Cerchi di fare del tuo meglio ma non lo senti come in altri momenti, questo purtroppo un musicista non lo può evitare, quando ha in calendario tanti concerti. Attualmente quando suoniamo in concerto ce lo godiamo moltissimo, e vediamo che anche il pubblico recepisce. Come ho già detto prima, a Roma abbiamo suonato l’ultimo quartetto di Schubert, una musica che impegna molto anche dal punto di vista dell’ascolto, abbiamo avuto proprio la sensazione che il pubblico fosse con noi, mille persone davanti e noi a suonare, tutti insieme ad ascoltare Schubert. Una cosa bellissima. Altri concerti magari li suoniamo dall’inizio alla fine sperando che tutto finisca il prima possibile, perchè proprio sentiamo di non farcela più. Questo purtroppo succede. Ma capita molto di rado che sia tutta la serata ad essere compromessa in questi casi, anche se si è molto stanchi, quando si comincia a suonare ci si lascia prendere dalla musica e tutto va per il meglio.
CR: Ho letto sul vostro sito che avete registrato per la Decca l’integrale dei quartetti di Fabio Vacchi, un compositore che non conoscevo finora. Me ne puoi parlare?
QC: Il rapporto con Vacchi è nato all’interno della Scuola di Musica di Fiesole, all’epoca erano attivi Farulli, Beyerle, Skampa, ogni anno era previsto l’invito di un compositore e qualcuno dei quartetti presenti nella scuola era coinvolto nell’esecuzione di un suo pezzo. Non conoscevamo Fabio Vacchi, ma all’epoca era uno dei compositori emergenti già con una fama adeguata al suo grande talento, iniziammo con il suo quartetto più difficile, che era il terzo, all’epoca da noi ritenuto quasi ineseguibile, tecnicamente difficilissimo, tuttavia lo abbiamo preparato e portato anche nei concerti all’estero. Vacchi ha ascoltato una di queste registrazioni del terzo quartetto, tra l’altro eseguito anche dal Quartetto di Tokyo, ha detto che preferiva noi e ci ha proposto di fare un concerto con tre suoi quartetti, da qui è maturata la decisione di suonare la sua musica. Lo stimiamo moltissimo perchè è il compositore italiano più rappresentativo nell’ambito della musica contemporanea, ci è sembrato giusto mettere su CD la sua musica. L’uscita del disco è prevista per il prossimo Aprile 2011. Per noi è stato un grande impegno, ma riteniamo che ne sia valsa molto la pena perchè Vacchi è uno di quei compositori nella cui musica si avverte ancora la radice della musica italiana, una vena di poeticità e cantabilità all’interno di una musica impegnativa da suonare e da ascoltare. Vacchi ha uno stile molto riconoscibile e questo è uno degli aspetti che più ci ha attratto di lui, in tutti i suoi quartetti. Di recente ne ha scritto anche un quinto che speriamo di suonare in futuro, si sente proprio che è lui, e questo per un compositore è molto importante.
CR: La butto lì: non è che magari in futuro Vacchi scriverà un quartetto proprio per voi?
QC: Siamo molto amici con Vacchi, quindi può essere un’eventualità, è una persona di grandissima cultura, simpaticissima e disponibile che dovresti conoscere.
CR: Magari! La nostra chiacchierata volge alla fine, vorrei rivolgere un pensiero a Farulli, a tuo parere quanto è ancora attuale la sua lezione e la sua opera?
QC: Siamo stati recentemente a Fiesole un paio di volte per suonare concerti con Lucchesini e per festeggiare i nostri 10 anni di attività, Farulli per motivi di età non è più impegnato nelle lezioni alla scuola, e questa è una grande perdita. Farulli nella sua lunga attività ha letteralmente cambiato la faccia dell’Italia musicale, qualunque musicista lo abbia incontrato ha capito qualcosa in più sulla musica e sulla vita della musica, Farulli ha creato la Scuola di Musica di Fiesole dove si insegna musica a tutti, bambini e adulti, e questo spirito fortunatamente lo si ritrova oggi ancora intatto all’interno della scuola. Il pericolo è che con il tempo si sentirà maggiormente la sua assenza e si avvertirà maggiormente la necessità di qualcuno come lui che abbia lo stesso fuoco sacro in grado di portare avanti il messaggio.
CR: Quindi il suo spirito, quello di Farulli, è ancora disperatamente necessario.
QC: E’ ancora disperatamente necessario, perchè prima e dopo di lui non ho mai incontrato una persona che veramente fosse capace di mettere la musica al centro dell’espressione della bellezza e di un modo sano di vivere. Quando parlavi con lui di musica, capivi subito che stavi parlando di qualcosa di molto importante, non solo un banale “quanto è bello suonare la musica” o “quanto è bello Beethoven”, ma un modo di vivere che ora va salvaguardato e che deve essere fatto capire ai giovanissimi che si avvicinano a questo mondo per la prima volta.
CR: Caro Cristiano, il messaggio mi sembra molto importante e chiaro. Ti ringrazio infinitamente per la tua disponibilità e franchezza. Arrivederci al prossimo concerto.