22 aprile 2005
L’ambientazione del concerto di sabato scorso, 16 aprile, era di per sé già da applausi. Ascoltare buona musica al cospetto di capolavori quali gli affreschi di Taddeo Gaddi per il trecentesco Cenacolo di Santa Croce è quanto di meglio si possa desiderare. Ma questa serata, organizzata come già anticipato da ARCA, ha offerto anche ottima qualità sia dal lato compositivo che esecutivo. Era di scena l’Ensemble Martinu, quartetto praghese con la particolarità di annoverare non solo il pianoforte in luogo del secondo violino ma anche il flauto al posto della viola. Riformato nel 1993 dal suo leader di oggi, proprio il flautista Miroslav Matejka, l’ensemble è composto da solisti giovani eppure già molto affermati. Nella formazione attuale i due membri storici – Matejka appunto e Radka Preislerova al violino – sono affiancati dal cellista di origine albanese Bledar Zajmi e Marketa Janackova al pianoforte.
Il programma proposto è ambizioso e sapiente. Ambizioso perché spazia dal settecento ai giorni nostri (considerato il bis, come vedremo), sapiente perché ha evidenziato al meglio la inappuntabile performance. I solisti sono tutti di levatura e offrono una lettura caratterizzata sempre da una timbrica all’altezza ed una vocazione espressiva che è altro elemento unificante di gran parte dei pezzi proposti. E tralasciando l’ordine dei brani (che è stato: Haydn, Martinu, Piazzolla, Ravel, Dvorak), vorrei proprio sottolineare come in qualche modo i compositori non cechi abbiano avuto la funzione di esaltare l’esecuzione di un singolo strumentista; mentre i brani di Dvorak e Martinu siano stati il top della serata, mostrando al meglio l’intesa dell’ensemble.
Haydn è stato inserito in scaletta a mo’ di riscaldamento, peraltro piacevole: il breve concerto Hob.XVIII/6 è più famoso nella sua versione originale per organo, dalla quale sono originate numerose trascrizioni per altri strumenti. Si nota bene, a corollario della sua derivazione, come la scrittura sia sbilanciata a favore del pianoforte, con gli altri solisti a supporto. Qui sono emerse soprattutto le dinamiche molto delicate di Janackova.
Con Piazzolla – Tristango, Meditango, Violentango ed il famoso Libertango, negli arrangiamenti di Michal Rataj – il quartetto ha voluto affermare la sua inclinazione all’espressione ampia e lirica, testimoniata nell’arco di tutta la serata da Zajmi, forse primus inter pares per qualità costante del suo fraseggio, e in questi brani da Preislerova, il cui violino si scioglie e trova corpo proprio nelle melodie argentine.
Interessante la lettura di Ravel: la trascrizione per trio di Henry Mauton di Ma mere l’oye viene eseguita da pianoforte violoncello e flauto, coi primi due tesi ad intessere una sottile trama su cui si innesta il virtuosismo di Matejka, qui al suo meglio nella veste di vero e proprio narratore di fiabe. Interpretazione tecnica e molto delicata, impressionista ma senza rinunciare ad un trasporto suggellato da una mirabile intesa di Matejka e Zajmi nell’ultimo brano della suite, Le Jardin Féerique, veramente notevole.
Ma i risultati più eclatanti si sono avuti nella lettura dei compositori di madrepatria.
Le quattro danze slave dall’op. 46 (3,5,7,8) di Dvorak, arrangiate per quartetto e registrate in prima assoluta proprio dall’Ensemble Martinu, sono insieme eleganti e trascinanti, in un crescendo di intensità che porta alle ultime danze, famosissime e bellissime. Qui l’intesa tra gli strumentisti è massima, e tale era stata prima ancora nel Quartetto H.315 di Bohuslav Martinu, apice interpretativo della serata. Ancora una volta abbiamo avuto un riscontro della eccezionale e sottovalutatissima testimonianza compositiva di questo musicista, il cui quartetto, come il gemello più famoso per archi H.314, risale agli anni “americani” del dopoguerra. In esso coesistono le varie anime dell’eclettico Martinu – ironia e leggerezza, ma anche punte di espressionismo e dolorosi consuntivi esistenziali (secondo movimento); sguardo ai modelli classici ma anche echi nostalgici delle armonie popolari. Soprattutto quella grande abilità di saper scrivere contemporaneamente per il singolo strumento e per l’ensemble, dispensando lampi solistici senza che la coesione del discorso vada mai perduta. Tutto questo è restituito dagli esecutori in maniera brillante impeccabile e davvero coinvolgente.
Un breve encore, Charleston (dalla Suite di Danze) del contemporaneo Lubos Sluka, conclude una serata che conferma la levatura delle proposte esecutive boeme.