05 ottobre 2016
Il M° Andrea Tacchi non è più tra noi, lo storico primo violino dell’Orchestra Regionale Toscana è scomparso lo scorso 26 Settembre lasciando un senso generale di sgomento e incredulità, poiché mai si sarebbe immaginato vedere interrotta così presto una carriera luminosa e densa come la sua. Di Andrea Tacchi si ricorda volentieri il buon carattere e la sua modestia, così che la sua sconfinata bravura ed infinita resistenza nell’affrontare responsabilità e carichi di lavoro faticosissimi, impensabili per una persona normale, apparivano quasi scontati nella loro straordinaria quotidianità.
Iniziai a frequentare l’ORT nel 1992 grazie al violista Dimitri Mattu, che conobbi a sua volta presso la Scuola di Musica di Fiesole, dove egli insegnava e dove mi recavo regolarmente per conoscere tanti grandi musicisti e i loro strumenti. In modo per me inaspettato il M° Mattu mi propose la costruzione di una viola piccola per un suo allievo e quando fu finita, dopo qualche mese, egli ne rimase favorevolmente colpito.
Quella fu la mia prima viola in assoluto e fui felice della buona riuscita, quindi incontrare Riccardo Masi (prima viola) e poi Andrea Tacchi fu praticamente tutt’uno. Allora l’ORT aveva sede nella chiesa di S. Stefano al Ponte, così chiamata data la sua vicinanza all’iconico Ponte Vecchio, nel cuore della Firenze rinascimentale, laddove le città italiane assumono parvenza di gioiello e offrono protezione ed intimità a chi le frequenta.
Fu un incontro importantissimo, perché aldilà dei miei strumenti da far valutare ai musicisti, mi si presentava l’occasione di poter accedere in modo discreto e senza difficoltà nel variegato e complesso mondo di una realtà orchestrale e di entrare in contatto con i migliori solisti del mondo e i loro grandi strumenti.
Questo ha significato per me un percorso di formazione e maturazione del mio gusto musicale e della percezione del suono, fino ad allora infatti non avevo bene recepito la dimensione degli “armonici” e di quello che un musicista di provata esperienza riesce a sentire e a cavare dal proprio strumento.
Gli equilibri tra le varie sezioni dell’orchestra, tra i violini primi e i violini secondi, le viole, i violoncelli, fu così che conobbi anche Horvath, Ballini, Bacchelli. Ma la cosa più bella era che potevo ascoltarli in prova, e tra una pausa e l’altra scambiare con loro impressioni, imparare cose nuove, avere la possibilità di vedere strumenti importanti.
E fu così che finalmente mi trovai a tu per tu con il Gragnani del M° Tacchi, il quale me lo porse con la sua consueta simpatia e disponibilità, e che al tempo stesso poneva seri dubbi sulle mie capacità di riuscire mai un giorno a realizzare un violino così bello e sonoro come quello.
Dall’antico liutaio livornese Antonio Gragnani mi sarei aspettato un’opera al limite della rusticità, con uno stile propriamente toscano, ma già il constatare la cura che fu posta nella realizzazione delle punte dei filetti, la cura nelle bombature, l’armonia della forma, mi indusse a pensare che egli avesse avuto qualche rapporto con la scuola cremonese, o che perlomeno avesse avuto opportunità di vedere un buon numero di strumenti classici cremonesi.
Tacchi sorrise compiaciuto, amava molto quel violino. E faceva bene, perché raramente ho avuto opportunità di vedere un’armonia così completa tra il musicista e il suo strumento, un insieme unico in grado di poter affrontare con sicurezza qualsiasi repertorio. All’epoca era direttore stabile Lu Ja con il quale Tacchi mi è sembrato avere sempre un grande affiatamento, così non mi è parso mostrare nessuna esitazione in altri ambiti e con altri direttori, da Berio ad Alan Curtis, Tacchi riusciva sempre a dare il meglio e a non fartelo mai pesare.
Quello che non finiva mai di stupirmi, sia in prova che in sede di concerto, era il suono di Tacchi, che riusciva sempre ad emergere senza tuttavia essere aggressivo o sgradevole. Ingenuamente ero portato a pensare che il violino di Tacchi fosse sempre un gradino sopra gli altri, invece quello era il “suo” suono, che difatti in breve tempo sarei stato in grado di riconoscere tra mille altri. Lo riconoscevo in un concerto di musica da camera in una bellissima sala medievale di un antico palazzo di Pistoia, oppure in duo, suonando il concerto doppio per violino e orchestra di Bach insieme allo Stradivari di Boris Belkin, ma anche seppellito in mezzo all’orchestra in fondo alla chiesa di S. Stefano al Ponte, quando suonarono il concerto Op. 61 di Beethoven, solista Pierre Amoyal.
E poi ancora con Gidon Kremer ai Quattro Mori di Livorno, con Viktoria Mullova al Verdi di Pisa, Yuri Bashmet, e tanti, tanti altri ancora, la cui musica non si è mai persa nel vento. Poi venne la notte dell’attentato in via dei Georgofili, della cui esplosione risentì anche la chiesa di S. Stefano al Ponte, che fu dichiarata inagibile, quindi l’ORT fu spostata momentaneamente al teatro Verdi. Un momento durato più di vent’anni, visto che oggi la sede dell’ORT è proprio lì, ma il mio ricordo resta indelebilmente legato all’antica chiesa, e non potrei mai pensarla diversamente, perché proprio lì assistetti ad un concerto in cui vidi e udii tra gli altri, una delle mie viole, era una sinfonia di Haydn.
E quella stessa viola finì proprio nelle mani di Tacchi, dopo che Mattu decise di acquisire un nuovo strumento costruito da Francesco Bissolotti. Mi stupisco ancora oggi di come quella mia viola imperfetta (la mia seconda in assoluto), sia finita in mani tanto stimate, e che Tacchi dette in prestito a Beate Springorum per il completamento del suo diploma in viola, qualche anno prima del suo trasferimento presso la Filarmonica di Monaco. Contrariamente a quanto accaduto con Riccardo Masi, cui mi lega un’amicizia ventennale, con Andrea Tacchi non ho mai avuto una confidenza stretta, e se ricordo bene, in tutti gli anni che ho frequentato l’orchestra, sia in prova che in concerto, non gli ho mai fatto provare uno dei miei violini.
A dire il vero non mi è mai nemmeno venuta la fantasia di fargliene provare uno, so bene che avrei trovato benevola accoglienza da parte sua, ma una sorta di pudore misto a rispetto mi ha sempre tenuto lontano da questo proposito, perché per me lui rappresentava la musica che amo e niente altro. E la musica non è solo quella prodotta dagli strumenti, ma è quella che ti porti dentro e che riconosci negli altri.
Claudio Rampini
Tivoli 5 ottobre 2016