Il rigore e la passione di Dego e Taverna.

Lo scorso 14 Dicembre si è esibito il duo Francesca Dego e Alessandro Taverna presso il Teatro Argentina, grazie all’organizzazione dell’Accademia Filarmonica Romana. Queste le musiche in programma:

  • Strauss
    Sonata per violino e pianoforte in mi bemolle maggiore op. 18
  • Schoenberg
    Fantasia per violino e pianoforte op. 47
  • Brahms
    Sonata n. 3 per violino e pianoforte in re minore op. 108

Seguo da qualche anno l’evoluzione artistica di Francesca Dego, mi ha sempre colpito il suo rigore ed il calore del suono, come anche la scelta del repertorio mai banale, possibilmente complessa ed articolata.

In questa occasione il programma del concerto assieme alla sua originalità, si è distinto anche per la notevole difficoltà di esecuzione. Anche sull’aspetto pianistico, ci rendiamo subito conto che sul palco sono presenti due solisti che riescono non solo a dialogare, ma a restituirci una sorta di “terzo suono”, rappresentato dalla fusione del violino e del pianoforte. Al pianista Taverna un sentito ringraziamento, non è facile trovare fusione e personalità in simili circostanze. Dego e Taverna, due forti caratteri, diversi e ben distinti, ma capaci di essere una cosa sola.

Questa particolarità l’ho riscontrata in particolare nell’esecuzione di Schoenberg, laddove l’espressione dodecafonica ha permesso di apprezzare al meglio la fusione degli armonici dei due strumenti, e cosa abbastanza inconsueta e mai scontata, sembrava proprio che i due esecutori ne fossero pienamente coscienti, permettendo all’ascoltatore di apprezzare non solo la monumentalità, ma anche l’intimo messaggio musicale del grande compositore austriaco.

Il violino suonato da Francesca Dego nell’occasione è un Francesco Ruggieri del 1697, che ho avuto occasione di ascoltare in altre occasioni, avendo io l’abitudine di cambiare la mia distanza d’ascolto tra un brano e l’altro, ho potuto apprezzare come il suono di questo straordinario strumento della classicità cremonese abbia una notevole capacità di proiezione ed una bella rotondità di suono, in specie sulla quarta corda.

Francesca Dego ha usato corde Evah Pirazzi Gold, note per il calore che conferiscono al suono, ma credo che anche usando corde con più “focus”, il risultato non sarebbe cambiato di molto, sia per la qualità del violino, che per quella stessa di chi lo suona.

Infine, questo concerto mi ha lasciato l’impressione di una Francesca Dego la cui scelta di repertorio e così anche l’esecuzione non la rendono certo un’artista pop, impegnata com’è in una ricerca personale così intima e profonda, che potrebbe essere difficile seguirla, ma che nei fatti così non è.

Testo e foto: Claudio Rampini

Il Quartetto Guadagnini suona Shostakovich.

Dimitri Shostakovich ha composto quindici quartetti d’archi, che ad oggi rappresentano un patrimonio monumentale della musica del 1900, certamente non scontato e nemmeno di facile interpretazione ed esecuzione.

Il Quartetto Guadagnini, lo scorso 6 Dicembre ha iniziato il ciclo completo dedicato a Shostakovich nell’ambito dei concerti di Roma Sinfonietta presso l’auditorium dell’Università “Tor Vergata” di Roma. Qui i brani in programma:

  • Quartetto n.1 op.49 “Primavera” (1938)
  • Quartetto n.2 op.68 (1944)
  • Quartetto n.3 op.73 (1946)

Avendo vissuto nella Russa di Stalin, i rapporti di Shostakovich con il potere non sono sempre stati idilliaci, e spesso il grande il compositore ha dovuto sottostare ai diktat ingiusti e paranoici di un regime fondato sulla paura. Ma se pensiamo alle composizioni di Messiaen create in condizioni di restrizione sicuramente ancora più dure, ne scaturisce che infine niente e nessuno può arginare il pensiero creativo.

E difatti il Quartetto Guadagnini, dopo averci regalato la lietezza della “Primavera” del 1938, affronta le oscurità del Quartetto n.2 con un suono direi molto ricco ed intenso, che ci fa capire in pieno la straordinaria complessità del pensiero musicale di Shostakovich. In particolare si viene colpiti dalle sonorità Klezmer, che in un periodo decisamente così difficile per gli ebrei d’Europa, sono riuscite a passare le maglie della paranoia stalinista e a regalarci momenti di autenticità e bellezza nella musica.

E’ difficile inquadrare i quartetti di Shostakovich in un unico pensiero musicale poiché sono tra loro diversissimi per carattere, intensità e perfino genere, tanto fu vasta la sua creatività, tuttavia, ascoltando il Quartetto n.3 vi percepisco impressioni di largo respiro che mi fanno pensare ai compositori francesi tra ‘800 e ‘900, con il valore aggiunto se possibile, di una consapevolezza del suono intima ed unica nel suo genere, che va a cogliere le sfumature più nascoste di cui un quartetto d’archi è capace. Suonare in quartetto è difficile, ma comporre per un quartetto avendo presente le proprietà del suono di ogni strumento e saperle fondere ad arte è operazione che a volte ha del sovrumano.

Di questo il Quartetto Guadagnini, che in questi ultimi anni sembra essere molto maturato in quanto a stile ed interpretazione, dà prova di esserne molto consapevole e accogliamo con grande felicità questa loro iniziativa nell’affrontare il ciclo completo dei quartetti di Shostakovich.

Purtroppo la serata è stata funestata dalla rottura irrimediabile della terza corda della viola di Matteo Rocchi, che ha interrotto la bella e godibile esecuzione del Quartetto n.3. A questo proposito vale ricordare che Rocchi usa corde Spirocore in acciaio, usate a suo tempo dal Quartetto Italiano, e in migliaia di strumenti oggigiorno senza nessun problema, ma una partita fallata ci può sempre stare.

Thomastik e musicisti avvisati, mai dare niente per scontato, ma siamo comunque rimasti soddisfatti per questo brillante inizio del Quartetto Guadagnini, aspettiamo con fiducia il seguito, e magari anche di poter riascoltare per intero e senza interruzioni il Quartetto n.3.

Testo e fotografie di Claudio Rampini

Il fantastico mondo (dei suoni) di Angela Hewitt.

Angela Hewitt

Per la 79a stagione della IUC (Istituzione Universitaria dei Concerti), lo scorso sabato 4 Novembre ha visto esibirsi all’Aula Magna della Sapienza la pianista canadese Angela Hewitt, che ha eseguito musiche di Mozart, Bach, Schumann.

Sin dalle prime note l’attenzione viene richiamata in modo energico non solo dall’interpretazione della Hewitt, ma dal suo suono, che sulle prime riesce quasi a disorientare, tanta è la nostra abitudine al suono digitale e a quello dell’eterno “Steinway” gran coda che ormai spadroneggia in lungo e in largo sulla maggior parte dei palcoscenici mondiali, e che pure riscuote regolarmente e meritatamente il consenso del pubblico e dei musicisti.

Ma il suono della Hewitt appare da subito come qualcosa di veramente speciale, non solo per la sua qualità rigorosa e potente di attrarre l’attenzione di chi l’ascolta, ma per la qualità meravigliosa degli armonici che ella sa trarre dal suo meraviglioso pianoforte Fazioli.

E’ questa la realtà vera della musica: aldilà del compositore, a cui va in ogni caso il merito e la ragione del nostro vivere un concerto, sta poi al musicista evocare quei profumi e quei colori, senza i quali non esisterebbe più nessun genio della musica capace di allietare questi nostri momenti così inquieti.

Ma quello di Angela Hewitt non è un suono che allevia e distrae, è un suono che fa pensare e per questo capace di ricondurci in modo ordinato e garbatamente energico al nostro essere.

Il linguaggio del corpo di Angela Hewitt si sposa bene con quello di chi la ascolta, così che quasi ci si distrae e non ha quasi più importanza se ciò che si sta ascoltando sia Bach, Mozart o Schumann, ma è il mondo unico e profondo che una musicista è riuscita a creare tra i riflessi bluastri piuma di gallo del suo meraviglioso pianoforte Fazioli, che la segue ad ogni concerto.

Al tempo stesso ci rendiamo conto che in questo mondo fantastico di suoni sia Bach, Mozart, Schumann, ne scaturiscono impreziositi, mai in modo stucchevolmente manierista, ma seguendo una qualità rara di rigore capace di suscitare un’emozione.

Ricordiamo che Angela Hewitt è anche direttore artistico del pregevole “Trasimeno Music Festival” https://trasimenomusicfestival.com/it/

Testo e fotografie: Claudio Rampini

Video: I “segreti” di Stradivari

Lo scorso 24 Giugno assieme ai liutai Marco Vinicio Bissolotti e Wanna Zambelli, si è celebrata una giornata di commemorazione e studio dedicata a Simone Fernando Sacconi nel 50° Anniversario della sua scomparsa, presso il Museo del Violino di Cremona.

Il mio intervento è consistito nel fare una disamina de “I ‘segreti’ di Stradivari”, il libro dato alle stampe da Sacconi nel 1972, prima ed unica edizione di un’opera fondamentale per la liuteria e la musica e mio riferimento costante di ricerca e di studio in tutta la mia vita dedicata alla liuteria.

Ringrazio i già citati Marco Vinicio e Wanna Zambelli per la fiducia e anche il curatore e la direttrice del Museo del Violino, Fausto Cacciatori e Virginia Villa per la stima e lo spazio che mi è stato concesso. Un ringraziamento particolare è dovuto ai liutai cremonesi che hanno assistito e condiviso il mio intervento.

Ho pensato quindi di riproporre il mio intervento su Youtube a beneficio di coloro che hanno avuto occasione di partecipare e degli appassionati e studiosi di liuteria e dell’opera di Sacconi.

Nei video si affrontano i principali argomenti del libro di Sacconi: il disegno della forma, il metodo costruttivo classico cremonese, la vernice, argomenti che ho diviso per ciascun video appositamente dedicato.

Il mio amico Enrique.

Il mio amico Enrique qualche anno prima di morire mi disse “Claudio, tu scriverai il mio epitaffio.” o qualcosa di simile che potesse ricordare degnamente la sua scomparsa.

Io però non lo presi troppo sul serio perché a distanza di più di 3 anni non ho scritto niente su Enrique perché figuriamoci se una persona famosa come lui potesse avere bisogno di un emerito sconosciuto come il sottoscritto per una responsabilità così importante.

Però una volta il mio amico Enrique mi chiese di scrivere al Papa, perchè era una di quelle soddisfazioni che avrebbe voluto togliersi prima di lasciare questo mondo: poter incontrare Papa Francesco e finalmente potergli dire “Figlio mio!”, e abbracciarlo affettuosamente.

Violino Rampini “Irazoqui del Gesù”, dedicato al mio amico Enrique.

Sì, perché il mio amico Enrique, e lo dico con grande senso di orgoglio è stato il protagonista di uno dei film più celebrati di sempre, non sto qui a ricordarne il titolo perché tutti sanno che Enrique interpretò Gesù nostro Signore e Guida nel film di Pier Paolo Pasolini, e che questo ruolo Enrique ha in qualche modo giocato per tutto il resto della sua vita, e per questo esatto motivo mi chiese di scrivere al Papa.

Ed il Papa rispose, seppure per interposta persona del suo segretario, inviando una cortese disponibilità per un’udienza pubblica, nella busta era contenuta anche una foto di Papa Francesco, giusto per ribadire che sul soglio di Pietro non c’è Gesù che tenga. Ma Enrique lasciò perdere tutto, la sua era una richiesta per un’udienza privata, a tu per tu, e non una di quelle cose che stai in mezzo alla folla e il Papa lo puoi vedere solo da lontano.

Io ed Enrique eravamo un po’ come Don Chisciotte e Sancho Panza, nel senso che lui era il cavaliere di belle speranze ed io il suo servo sempre a disposizione, pronto anche a dargli qualche consiglio. Perché fra noi due chi prendeva fuoco e avvampava furiosamente era lui, io un poco mi scaldavo al suo calore, ma anche mi divertivo un mondo perché il suo furore non conosceva limiti e rispetto per nessuno. Enrique in questo possedeva il senso assoluto della democrazia, l’ipocrisia non gli apparteneva e gli uomini erano tutti uguali. Le donne però erano un pò meno uguali, perché nella vita di Enrique, come in quella di Don Chisciotte, la Donna ha fatto veramente la differenza.

Infine anche Angela Molteni, la mia amatissima e compianta maddalena pasoliniana, se ne dovette fare una ragione e parlando di Enrique, che eternamente irrequieto entrava e usciva dalle relazioni umane, ne emergeva un grande affetto, pur tra mille contraddizioni anche Enrique nutriva per Angela un grandissimo affetto, tant’è che per la sua scomparsa fu proprio Enrique ad interessarsi affinché il patrimonio pasoliniano di Angela non andasse disperso.

Il mio amico Enrique Irazoqui.

Un giorno mi trovai disperso e allontanato ingiustamente dalla cerchia di nostri amici comuni, cosa che mi gettò nello sconforto e nell’amarezza, ma venni contattato da un oscuro personaggio tedesco del tipo “Heinrich Heisenberg”, o qualcosa di simile, ma che in realtà era proprio Enrique che segretamente e sotto mentite spoglie mi offriva il suo supporto facendo la spia e comunicandomi le trame dei miei nemici.

Più che suo servitore, io mi sono sentito un poco suo figlio, e per questo credo di averlo deluso quando gli confessai la mia profonda avversione per il gioco degli scacchi, che invece lui adorava, ma che potevo farci? il nostro era un rapporto franco e sincero, io non ho mai pensato di dirgli una cosa per un’altra, e credo neanche lui.

Poi venne il giorno in cui una certa giornalista pubblicò un libro che io ritenevo molto discutibile su Pasolini, e ne scrissi una recensione così feroce, che la giornalista leggendola minacciò seriamente di querelarmi. Ma io non avevo usato un linguaggio offensivo e tantomeno volgare, avevo solo stroncato quell’opera a mio avviso indegna così come farebbe qualunque critico.

Ma io non ero un critico, ero solo un lettore appassionato di letteratura e di Pasolini che ebbe il torto e la presunzione di stroncare un libro che non avevo neppure letto. D’altra parte non c’è bisogno di mangiare il piatto di zuppa se già prima di assaggiarla avverti un odore disgustoso!

In quell’occasione fu proprio il mio amico Enrique che mi salvò, perché prese apertamente le mie difese in nome dell’affetto che provava per me, ma sopratutto a difesa del diritto di parola e di pensiero.

Ecco, Enrique era uno stratega ed io il suo opposto, e come è noto gli estremi si toccano, e quindi andavamo perfettamente d’accordo. Solo una volta, quando Enrique voleva spingermi ad una specie di colpo di stato in un gruppo social vagamente pasoliniano, io gli resistetti perché semplicemente mi sembrava inutile spendere energie per una cosa altrettanto inutile. E lui in qualche modo si offese, e penso anche che si arrabbiò con me, ma nei fatti il nostro rapporto rimase invariato e pieno d’affetto, solo che da allora in poi credo che Enrique abbia pensato a me come ad una specie di bradipo in forma umana.

Allora, io tentai di fargli capire che la mia strategia andava oltre alla partita di scacchi, non mi interessava vincere la battaglia, ma puntavo direttamente a Dio, ed i suoi occhi si riaccesero di entusiasmo perché l’idea di andare oltre l’impossibile gli era sempre piaciuta. Enrique odiava la mediocrità, molte persone intorno a lui lo frequentavano solo perché era una persona famosa, e di questo il mio amico ne aveva una precisa ed esatta contezza, e se ne serviva come e più gli piaceva, perché in fondo era sempre lui a muovere le pedine nel suo universo.

Un giorno Enrique mi chiese “Claudio, devi fare un violino speciale che porti il mio nome, passerà alla storia come il violino “Irazoqui del Gesù”, che in effetti suonava un po’ ridondante perché lui era già Gesù in tutto e per tutto, ma riprendendo il più famoso liutaio Guarneri del Gesù, il nome che aveva scelto era perfettamente adeguato alla sua figura. Ed oggi quel violino barocco che porta il suo nome riporta in vita il mio amico Enrique con il suo suono, le nostre battaglie di ragazzi di strada, il nostro comune amore senza tempo per Dulcinea.

Claudio Rampini