Il Quartetto Alban Berg e Mario Brunello a Firenze.

26 febbraio 2005

Una bella recensione dal Teatro della Pergola, dove il 20 Febbraio scorso il Quartetto A. Berg con ospite il violoncello di Mario Brunello ha dato vita ad un concerto di eccezionale rilevanza e qualità. In programma era il quartettsatz D703 di Schubert, poi la Suite Lirica di Berg, e nella seconda parte il grande quintetto D956 in do, sempre del sommo Franz. L’interpretazione è stata fenomenale per tecnica e carica drammatica trasfusavi.

Il Quartetto Alban Berg è sicuramente, se non il più grande, tra i due-tre più grandi ensembles in attività, e ieri ne ha dato piena prova, insieme al violoncellista Mario Brunello che è entrato in scena dopo l’intervallo. La magnificenza delle loro letture deriva da una tecnica inappuntabile anche di fronte a passaggi tematici strettissimi, unita ad una marcatissima ricerca dell’espressione. Ed è quest’ultimo un valore aggiunto di fronte a partiture che, con tale approccio, da pagine virtuosistiche riescono appieno ad elevarsi a paesaggi dell’anima, di tutti i suoi complessi risvolti. La costante di tutto il concerto è la perfetta padronanza e sincronia degli elementi del quartetto, col primo violino Guenter Pichler, sommo e raffinato virtuoso con solo qualche trascurabile episodio d’asprezza nel primo brano (il D703), che col suo gesto di slanciarsi leggermente sulla sedia nei passaggi più precipitati sembra somatizzare la musica; per converso, il violoncellista Valentin Erben, minimale nel gesto, dota il suo strumento di una incredibile e pressoché infinita varietà di sfumature espressive, dalla frase impetuosa alla sottolineatura eterea ed impalpabile. Di grande levatura anche gli altri due membri, il secondo violino Gerhard Schulz e la viola Thomas Kakuska. Già la loro lettura d’apertura del Movimento di quartetto (Quartettsatz) in do minore D703 di Franz Schubert dà conto di una raffinatezza estrema nello sviscerare l’alternanza di cantabile e presto, fissità contemplativa e slanci di dinamismo, secondo canoni estetici assolutamente confacenti allo Schubert cameristico, che non è mai semplice e che sembra costantemente presagire la fine dentro o dietro ogni spensieratezza. Viene poi la Suite “Lirica” di Alban Berg, interpretato come epigono del romanticismo, con una chiave ermeneutica sostanziale e perfettamente coerente con la completa libertà espressiva dell’Autore, il quale, pur avendo già compiutamente assimilato il metodo dodecafonico, lo riserva solo – come si legge nelle note di sala – alle due estremità dell’opera (primo e sesto movimento), nonché a parte dello straniante terzo. Peraltro molte sono le citazioni tonali anche nei movimenti dodecafonici: dai temi della sinfonia di Alexander von Zemlinsky alla quale il titolo rende omaggio, al tema d’apertura del Tristano e Isotta. Opera-simbolo per un compositore qui davvero innalzato e al tempo stesso divorato dalla passione amorosa. La lettura del Berg è quantomai “monstre”, di pulizia assoluta e tale da restituire al meglio i passaggi più moderni e formali – quali il “lunare” Trio estatico del terzo movimento, o il fugato su una serie dodecafonica che apre il Largo desolato conclusivo. Ma rispetto ad altre letture più algidamente orientate all’indagine della modernità (Quartetto Arditti, l’altra esecuzione discografica di riferimento), il tema conduttore è una “filologica” passionalità spinta alle estreme conseguenze. Ne risultano, tra tutti, un Adagio appassionato ed un Presto delirando (il famoso movimento che sembra evocare l’amplesso con l’amata) di grandissimo valore interpretativo. Dopo la pausa, entra in scena l’ospite Mario Brunello, che già dalle prime battute si integra alla meglio con la formazione, costituendo nella gestualità più accentuata una sorta di dioscuro mediterraneo in rapporto ad Erben. E’ in programma il grande Quintetto in do maggiore D956 di Schubert. Di durata intorno all’ora, esso viene datato 1828, anno della morte del Maestro, e pubblicato postumo. Il critico Alfred Einstein sottolineò giustamente l’impianto sinfonico (per il massicio ricorso al “ritenuto” ad opera di violino secondo e viola) che però non si trasforma mai in magniloquenza fine a se stessa. In pratica, non ci muoviamo di un millimetro dall’intimismo che ha contrassegnato tutta la serata. L’ensemble prosegue alla meglio il suo lavoro di introspezione, senza mai forzare il dato “romantico” a discapito della chiarezza espressiva. La partitura scorre con naturalezza, lungi dall’ appesantirsi come potrebbe rischiar di fare date le dimensioni dei movimenti: l’ascolto è leggero e gradevolissimo, e come nello Schubert d’apertura la coesistenza di serenità ed inquietudine è riportata in pieno in un cristallino gioco di contrapposizioni che si risolve alla fine non in complicati escatologici significati ma nel trionfo della purezza dei temi, delle variazioni, delle forme. Soprattutto i primi due movimenti, l’Allegro ma non troppo e l’Adagio, testimoniano questa felicità interpretativa, con un Pichler veramente stellare. Applausi scroscianti, cinque chiamate sul palcoscenico e, forse per l’ora tarda, nessun encore, ma rimane la sensazione di avere assistito ad un evento di portata artistica non comune.

Nota: Recensione a cura dell’amico “bobregular”: BLOGregular