Il Settecento musicale è costellato di figure di grande rilievo nel doppio ruolo di compositori e virtuosi del violino. Basti pensare a Corelli, Torelli, Vivaldi, Tartini, Locatelli, Nardini e altri. Tra tutte queste personalità, che hanno in comune la ricchezza di esperienza a livello europeo, spicca Francesco Maria Veracini, un personaggio originale per alcuni aspetti caratteriali che certamente influenzarono la sua produzione musicale.
F.M.Veracini nasce a Firenze il 1° Febbraio 1690 da Maria Elisabetta e da Agostino, uno dei pochi uomini della famiglia a non aver intrapreso la carriera di compositore-violinista.
Il nonno paterno era un noto violinista e compositore come lo zio Antonio con cui Francesco Maria intraprende gli studi.
I suoi studi si completano con Giovanni Maria Casini, organista nella cattedrale di S. Maria del Fiore, e in Germania grazie al musicista Giuseppe Antonio Bernabei.
Nella prima metà degli anni ’10 Veracini si reca e si ferma a Venezia dove suona come solista nella Basilica di S.Marco e in altre chiese della città in occasione delle funzioni religiose; entra in contatto con Albinoni e Vivaldi ed è proprio da qui che inizia la sua brillante carriera internazionale.
All’epoca Francesco Maria è poco più che ventenne ed è già accompagnato da una fama leggendaria: pare che G.Tartini, dopo averlo ascoltato suonare a Palazzo Mocenigo (forse nel 1712), sarebbe rimasto talmente colpito e nello stesso tempo mortificato dal virtuosismo del rivale, specialmente nella tecnica dell’arco, che decise di ritirarsi ad Ancona per perfezionare l’arte. Questa notizia sembra avvalorata dal fatto che fu diffusa dal musicista Antonio Vandini, molto vicino a G.Tartini.
Sempre a Venezia, Veracini conosce Federico Augusto di Sassonia al quale dedica una raccolta di 12 Sonate che escono in stampa. Il principe lo assume nel 1719 a servizio a Dresda, con il compito di scegliere cantanti italiani per la stagione d’opera; inoltre gli assegna un ruolo stabile nell’orchestra della cappella come solista, con salario forse superiore a quello dei musicisti più in vista della città. Questa posizione non gli rende la vita facile: nell’ambiente nascono malumori e rivalità, tanto che, pare, in un eccesso di follia o d’ira, Veracini nel 1722 si getta dalla finestra di un edificio fratturandosi una gamba della quale rimane zoppo.
Veracini, più tardi a tal proposito, allude ad un intrigo che sarebbe stato ordito per invidia e gelosia.
Altri storici del periodo, invece attribuiscono l’evento all’eccentricità del compositore, al suo carattere
particolare. Difatti, da alcune testimonianze raccolte da suoi contemporanei e dai suoi stessi scritti si evidenzia la stravaganza, la presunzione, l’arroganza e la determinazione a difendere a tutti i costi la propria indipendenza e libertà, come da ogni buon fiorentino verace.
Difatti, ad eccezione del periodo di Dresda, Veracini si guarda bene dal mettersi al servizio o dal vincolarsi troppo ad uno stesso signore; sceglie i rischi della libera professione e riesce a difendere la propria autonomia soprattutto grazie al suo virtuosismo che prende corpo e si realizza perlopiù in sonate anziché in concerti.
I suoi contemporanei spesso interpretano questi tratti caratteriali, questa volontà di indipendenza e di seguire il proprio demone interiore, come follia.
Lo storico musicale Charles Burney (1726-1814), nella sua opera di storia della musica “A general history of Music from the earliest Ages to the present Period” (1789) vol.2, cita aneddoti e storielle sulla stravaganza di Veracini e per definire il suo temperamento, utilizza l’espressione italiana “capo pazzo”, testa matta.
La sua produzione musicale risente sicuramente di questa originalità evidenziando percorsi controcorrente rispetto all’evoluzione della musica settecentesca.
Nelle sue opere si possono cogliere aspetti conservatori e nel contempo innovativi; lo stile compositivo risente delle sue esperienze tedesche, inglesi e veneziane, e ancora, dell’influenza corelliana. E’ un autore che compone con stili diversificati e l’ascolto dunque attrae per l’aspetto sfuggente, mai univoco. Comunque il tratto fondamentale e innovativo del Veracini consiste nell’invenzione del trattamento affettivo delle melodie strumentali intese in senso perlopiù operistico, lirico e cantabile. In buona sostanza, a differenza di quasi tutti gli altri violinisti-compositori italiani dell’epoca, le opere di Veracini sono costituite da opere teatrali e cantate, e musica sacra soprattutto nei suoi ultimi anni.
Dal punto di vista tecnico-virtuosistico Charles Burney mette in evidenza la “sua tecnica dell’arco, il suo trillo, i suoi sapienti arpeggi e un timbro così sonoro e chiaro che poteva essere udito anche attraverso la più folta orchestra di una chiesa o di un teatro”.
Ma torniamo alle vicende della sua vita: una nuova ripresa della sua attività si verifica con il trasferimento a Londra nel 1733 dove rimane fino al 1738, e poi dal 1741 al 1745. Qui egli si esibisce come solista nei teatri e come autore di melodrammi per la compagnia italiana “Opera of the Nobility”, rivale del maestro tedesco Georg Friedrich Haendel con il quale, più tardi, avrà comunque contatti. Sempre a Londra compone quattro opere cantate per il King’s Theatre.
Nel 1745 lascia l’Inghilterra e durante l’attraversamento della Manica subisce un naufragio in cui si salva, ma perde i suoi due preziosi violini Stainer soprannominati, secondo C.Burney, S.Pietro e S.Paolo.
Da quest’ultimo episodio c’è un vuoto d’informazioni fino a giungere al 1750, anno in cui Veracini torna nella sua Firenze e viene nominato maestro di cappella in alcune chiese. Come già detto, negli ultimi anni si occupa di musica sacra e stila manoscritti che riguardano la teoria musicale.
Le ultime composizioni si contraddistinguono per l’accento al contrappunto e alla musica polifonica e per una maggior presenza dell’attività del basso. Fra le opere scritte risaltano “Dissertazioni sopra l’opera quinta del Corelli”, e “Il trionfo della pratica musicale” in cui, sconfinando spesso in toni espressivi pedanti e polemici, muove una critica allo stile omofonico, anche se da lui stesso trattato in passato, perché a suo avviso ormai sorpassato, monotono e risultato dell’ignoranza.
Veracini muore solo, a Firenze il 31 Ottobre 1768. Il funerale viene organizzato per sua volontà in pompa magna e, sempre per suo volere, la grossa eredità viene divisa in tante piccole parti: alla fedele serva, ai suoi allievi, ai poveri della città e perfino ai parenti con i quali non andava molto d’accordo… E pensare che per anni aveva minacciato la moglie di accoltellarla e diseredarla a favore di una vedova inglese! Lei invece è scomparsa diversi anni prima, per un “accidente”; il corpo di Veracini le riposa accanto nella tomba di famiglia presso la chiesa d’Ognissanti a Firenze.
La conclusione alle parole dello scrittore Charles de Brosses che, dopo averlo ascoltato a Firenze nel 1745,così lo definisce: “…il primo, o almeno uno dei primi violinisti in Europa…” giudicando la sua esecuzione “…esatta, sapiente, nobile e precisa, seppur piuttosto priva di grazia…”.
Bibliografia essenziale: * John Walter Hill: “The life and works of Francesco
Maria Veracini”, UMI RESEARCH PRESS, 1979.
Nota: Articolo a cura di Grazia Rondini.