Cuore e rigore: il Quartetto Guadagnini.

 

Quella di parlare di un quartetto d’archi di cui non si è mai ascoltato un disco e non si è mai avuto occasione di ascoltare dal vivo non è la migliore delle idee che possa venire in mente, poiché bisognerebbe sempre parlare di ciò che si conosce. Invece stavolta ho voluto giocare la mia mano di poker come si suol dire “al buio”, ossia senza avere un’idea delle carte che si hanno in mano. Tutto quello che posseggo è una serie di indizi: una breve registrazione su Youtube di un quartetto di Smetana “Dalla mia vita”, quattro strumenti moderni, il Quartetto Italiano, Cristiano Gualco e Simone Gramaglia, una stazione ferroviaria, ed infine un telefono cellulare.

Iniziamo dal primo indizio: la registrazione su Youtube non è di qualità eccelsa, inoltre sono solo sette minuti, tuttavia la prima impressione, oltre a quella della struggente bellezza dell’opera di Smetana, è l’energia con cui viene eseguito il brano. Eppure in apparenza non sembra niente di speciale, vedi solo quattro giovani musicisti che suonano in una chiesa, alle loro spalle un altare, e tutto sembra filare nel più normale dei modi. Man mano che la musica prosegue mi pare di avvertire qualcosa di familiare, un rigore ed una precisione che ho già sentito altrove, ma che per rispetto e prudenza preferisco non concretizzare in un nome.

Vorrei ascoltare di più, la musica mi prende, ma purtroppo i sette minuti scadono implacabili ed io rimango con la bocca asciutta. Quindi faccio una breve ricerca in rete al nome “Quartetto Guadagnini” e fortunatamente mi trovo di fronte al loro sito, con tanto di indirizzi mail e numeri di telefono. Guardo le loro facce giovani, ritrovo la stessa energia che ho ascoltato poco prima nel filmato su youtube, e poi mi imbatto nel calendario dei concerti, che si scioglie in una lunghissima lista di impegni passati, presenti e futuri. Davvero niente male in tempi come questi di oggi, così duri per la musica.
Purtroppo tra le date programmate non ce n’è una che abbia luogo a Roma o zone vicine, dovrò attendere il momento propizio per soddisfare la mia curiosità. Però una cosa la posso fare già da subito, quella di comporre un numero di telefono e intanto fare conoscenza.

Mi risponde Fabrizio Zoffoli, una voce giovane e allegra che mi accoglie molto benevolmente, gli dico che non li conosco se non per averli sentiti per quel brevissimo brano su Youtube e niente altro. Sento che lui dall’altra parte del filo sta sorridendo, dice che stanno preparando il materiale da mettere in rete, e che purtroppo fino ad ora non hanno avuto tempo di organizzare perché sempre presi dai concerti, dalle prove e dagli spostamenti. Ecco per l’appunto la stazione ferroviaria, è proprio lì che li ho intercettati, manca solo violista Margherita Di Giovanni, per il resto sono tutti lì che stanno aspettando che qualcuno li venga a prendere. Intanto Alessandra Cefaliello sta studiando, tra pochi giorni ha un esame molto importante. Non oso chiedere come e cosa stia studiando in una stazione ferroviaria, ma immagino che se uno vuole potrebbe approfittare di qualsiasi luogo in qualsiasi momento per prepararsi, che problema c’è?
E poi lei è allieva di Giovanni Sollima, noto non solo per il suo virtuosismo, ma anche per la sua capacità di suonare dappertutto e in qualsiasi condizione, lo ricordo a Roma in mezzo ad un centinaio di violoncelli al Teatro Valle e in un filmato un po’ surreale, in quel che sembrava un pioppeto di Alice nel Paese delle Meraviglie.
Dico a Fabrizio che io sono un liutaio, mi risponde che lo sa e che mi conosce per i miei strumenti. Bene, mi dico, così posso andare tranquillo nel mio essere molto preparato nella musica da camera per essere un liutaio, essere un non specialista è di grandissimo aiuto alle volte.
Non mi viene in mente di fare la classica intervista telefonica, forse perché li sento così giovani e quindi familiari, ma soprattutto è la stazione ferroviaria e l’essere entrato in una dimensione del viaggio che mi rilassa e mi induce a sentirmi come un loro compagno di viaggio, seppure occasionale.
Chiedo a Fabrizio se sia giusta quell’impressione che ho ricevuto di grande rigore ed energia che ho percepito nella pur imperfetta registrazione, mi ricorda qualcosa di molto familiare ma che ancora non oso pronunciare per timore di evocarne il nome invano (il Quartetto Italiano n.d.r.). Mi dice che sono insieme da circa un anno e che si stanno perfezionando con il Quartetto di Cremona presso l’Accademia della Fondazione Stauffer.
La mia mente fa corto circuito, improvvisamente quel nome tanto sacro, quanto impronunciabile, lo posso fare: il Quartetto Italiano! E’ come se all’improvviso ci ritrovassimo vecchi amici uniti da una passione comune, parliamo delle loro mitiche esecuzioni e di come il Quartetto di Cremona sia riuscito nel piccolo grande miracolo di aver scoperto il “segreto” del suono del Quartetto Italiano e al tempo stesso di aver sviluppato un’identità originale che oggi permette loro di affrontare qualsiasi brano di repertorio cameristico con disinvoltura e maestria, senza il bisogno di scimmiottare nessuno. Anche le loro interpretazioni dei quartetti di Beethoven stanno facendo storia, e così pure quelle mirabili delle composizioni di Fabio Vacchi.
Quindi le mie domande si fanno incalzanti, che strumenti avete, come preparate i concerti, che tipo di impostazione avete dato al vostro quartetto, e così via. Fabrizio è molto cordiale, non solo non sembra infastidito dalla mia invadente curiosità, ma sembra perfino lieto di condividere con me il frutto del suo lavoro e di quello dei suoi colleghi.
Mi dice che lui suona un violino di Marino Capicchioni del 1962, Giacomo Coletti un violino di Bruno Costardi del 2006, Margherita Di Giovanni una viola di Bruno Barbieri del 1982 e Alessadra Cefaliello un violoncello di Giuseppe Lorenzo Quagliano del 1999. Con questi strumenti un quartetto così giovane ha vinto di recente ben due primi premi in due importanti competizioni: il V° Concorso Musicale Marco Dall’Aquila, e la XVI edizione del Concorso Internazionale Pietro Argento di Gioia del Colle.
Buon sangue non mente. Faccio i miei complimenti innanzitutto per il coraggio nella scelta di suonare con strumenti moderni, a dimostrazione una volta di più che per fare buona musica e vincere concorsi non è necessario investire centinaia di migliaia d’euro in preziosi strumenti antichi, perché se il solista ha il bisogno, spesso veicolato da esigenze commerciali, di ostentare un meraviglioso Guarneri del Gesù o uno Stradivari, per un quartetto invece l’importante è l’amalgama del suono: Quartetto Italiano docet.
Anche nel caso del Quartetto Guadagnini sembra che la Thomastik, la famosa casa austriaca produttrice di corde per strumenti ad arco, la faccia da padrone: eccezion fatta per il secondo violino che sta sperimentando le Evah Pirazzi, dopo un periodo passato con le Infeld Blu, gli altri musicisti del quartetto suonano con Dominant (primo violino) e Spirocore (viola e cello montano le prime due corde Larsen).
Chiedo se anche loro come il Quartetto Italiano riescano a suonare senza l’ausilio dello spartito, con molta modestia mi viene risposto che sicuramente è nei loro progetti, perché suonare a memoria è un punto in più, non tanto per una prova di bravura, ma perché avere “dentro” la musica sicuramente offre un valore aggiunto all’interpretazione, sia per gli esecutori che per il pubblico che li ascolta.
D’altronde, aggiungo io, come se imparare un quartetto a memoria fosse una delle cose più semplici del mondo, anche gli attori di teatro da che mondo e mondo recitano ed interpretano le opere dei grandi drammaturghi senza nessun bisogno di leggere il copione. Fabrizio mi risponde che però il musicista, a differenza degli attori, non può improvvisare, e che basta un nonnulla, un attacco di poco anticipato o in ritardo per trovarsi subito nei guai.
Una volta di più condividiamo la grandezza del Quartetto Italiano, ma al tempo stesso ammiro l’onestà di questi giovani musicisti, che amano prepararsi in modo coscienzioso, ma al tempo stesso non escludono il cambiamento, anche laddove questo dovesse costare lacrime e sangue.
Di quartetti italiani e stranieri ne ho sentiti parecchi e come già ebbi occasione di osservare nella precedente intervista al Quartetto di Cremona (vedi il Portale del Violino), famoso anche per l’equilibrio tra le parti, questo sembra spesso non valere per altre formazioni, pur di gran pregio. In alcune occasioni si avverte la prepotenza di un primo violino “sparato” all’inverosimile che sembra fagocitare gli altri strumenti, oppure di una grande intesa tra due strumenti e di lasciare gli altri due come abbandonati a sé stessi. Non è solo un problema di resa acustica dell’ambiente, è che un quartetto nella estrema delicatezza del proprio equilibrio mostra in modo impietoso i difetti nell’impostazione del quartetto medesimo, e laddove dovrebbe levarsi la musica si percepiscono invece le dinamiche misteriose (ma non troppo), di musicisti forse preoccupati a volte di fare solo bella figura.
Fabrizio mi dice di preferire che il suo collega Giacomo si possa esprimere in tutta libertà, senza nessun timore di “sforare”, anzi, vuole che il suo violino suoni forte, perché in ogni caso il primo violino è aiutato dall’essere più esposto e che nella stragrande maggioranza dei casi è il repertorio stesso che prevede di far uscire il primo violino, ma questo succede in modo fisiologico ed è voluto dal compositore.
Il dialogo a volte si interrompe perché sembra che stia arrivando la persona che deve prelevarli dalla stazione, ma è un falso allarme. Chiedo il perché della scelta del nome “Guadagnini”, mi viene risposto che non c’è stata una reale intenzione in tal senso, fu un suggerimento di Paolo Andreoli (secondo violino del Quartetto di Cremona n.d.r.) che ha avuto in prestito, e mi risulta che lo abbia ancora, dalla “Friends of Stradivari” (Fondazione Stradivari di Cremona n.d.r.), un violino del grande Giovanni Battista Guadagnini, ed il fatto che questo liutaio abbia operato in diverse città tra Piemonte e Lombardia, ha dato loro una buona sensazione di italianità e di appartenenza. Un’italianità intesa non in senso politico ed economico, ma in senso eminentemente culturale e musicale. E questo, io credo, per giovani uomini e donne di poco più di vent’anni impegnati a tempo pieno a far musica non è affatto poco. E che a vent’anni si è uomini e donne, non si è più ragazzi.
Riesco a parlare anche con Giacomo Coletti, il secondo violino e poi con Alessandra Cefaliello, mi raccontano di loro e degli strumenti che suonano, degli impegni del presente e del futuro, non c’è traccia di fatica nelle loro voci, traspare sempre una tranquilla energia e un entusiasmo che ti fa capire in un solo momento che se in Italia qualcuno è riuscito a spendersi per formare giovani come questi, non solo ne è valsa la pena, ma che senza queste giovani e fresche forze non si va da nessuna parte.
Ed è bello lasciarli liberi nel loro amore per la musica, ed è bello per me essere diventato un compagno di viaggio ed aver contemplato assieme il paesaggio assieme a loro.
 
Claudio Rampini 7 Luglio 2013