Il grande dilemma: violino antico o violino nuovo?

02 settembre 2009

Oggi invito gli utenti del Portale del Violino alla lettura di un articolo a firma del Prof. Renato Meucci dal titolo “Antico e Nuovo”, che compare nel numero di Settembre della rivista Amadeus. Si tratta di uno scritto che a mio parere affronta il tema degli strumenti della liuteria antica e contemporanea in modo piuttosto superficiale. Ho quindi deciso di scrivere a mia volta un articolo in risposta che tenti di bilanciare almeno in parte il danno che si è perpetrato all’immagine della nostra liuteria. Il peggio, purtroppo, è che il danno lo si è fatto pensando di fare un omaggio alla nostra tradizione.


Ma veniamo ai fatti.

L’articolo esordisce con una domanda dal sapore retorico: “chi è stato il più grande liutaio della storia?” Naturalmente si risponderà “Antonio Stradivari!”. E poi come non menzionare i Guarneri, gli Amati e tutti gli altri grandi della classicità cremonese?

 A questo punto il Prof. Meucci constata che nella rosa dei nomi dei “migliori” difficilmente sarà incluso un nome di un liutaio contemporaneo e si spinge alla formulazione di un’altra domanda retorica, che io sintetizzo per amor di brevità: “Ma allora i liutai contemporanei a chi vendono i loro strumenti? Solo a studenti di conservatorio e a musicisti mediocri? (nell’articolo si parla più opportunamente di musicisti di “discreto talento”).

Si rende necessaria una prima riflessione: io e molti dei miei colleghi liutai non ci siamo mai posti il problema del “migliore”, e anche il Prof. Meucci dovrebbe sapere molto bene che in ambito scientifico e storico-artistico, il “migliore” è un concetto del tutto aleatorio che nemmeno il più sprovveduto degli studenti si sognerebbe di usare. Si guarda alla storia della liuteria italiana, o meglio si dovrebbe guardare in modo obiettivo. Ogni autore, da quello che ha segnato un’epoca, a quello cosiddetto “minore”, è portatore di una originalità di pari dignità, e non è mai stato raro il caso di liutai che si ispirarono e si ispirano ancora oggi al lavoro dei “minori” con ottimi risultati estetici e acustici.

 Forse il professore voleva parlare dei liutai più “famosi”, anziché di quelli “migliori”?
Procedendo nella lettura, si viene informati del fatto che anche oggi vengono costruiti strumenti di grande valore artistico, ma sono preso da una leggero senso di vuoto: dove sono andate a finire tutte quelle generazioni di liutai che hanno fatto la storia della liuteria dalla seconda metà del 1700 fino a tutto il 1900? Possibile che uno Storioni, un Candi, un Soffritti, uno Scarampella, un Capicchioni, solo per citarne qualcuno a caso, non siano stati capaci di costruire capolavori?
A giudicare dalle cifre piuttosto alte a cui vengono venduti questi violini cosiddetti “d’epoca”, non si direbbe che siano così scadenti.

Secondo l’articolo la differenza più grande tra un violino antico (probabilmente si intende di epoca stradivariana), e uno contemporaneo (quelli dell’800 nemmeno a parlarne), sembra consistere nel fatto che i primi sono venduti a prezzi esorbitanti rispetto ai secondi. La constatazione è deprimente: “la quotazione dei migliori strumenti contemporanei non raggiunge nemmeno quella dei più scadenti esemplari del passato”.

 Ancora una volta ci si pone la questione del “migliore”, ma davvero vorrei spiegata in termini comprensibili la differenza tra un violino migliore e uno peggiore, perché mi sembra che l’articolo faccia intuire che qualcuno quelle differenze sia ben capace di percepirle. Purtroppo a me non è dato di possedere altrettanta chiarezza di idee, anzi, ogni volta sono costretto a passare svariate ore nei teatri per cercare di capire la natura dei suoni. Ho come il vago presentimento che, differenze di prezzo a parte, si stia tentando di far passare l’idea che gli strumenti contemporanei suonino bene come quelli antichi, che tutti lo sapevano ma nessuno si è mai azzardato a dirlo. Ma forse sono troppo sospettoso, meglio andare avanti con la lettura.
Nel prosieguo dell’articolo ci si sofferma su alcune “dimenticanze” che si provvede a a recuperare per il bene del nostro intelletto e della nostra liuteria: ci si dimentica troppo spesso che gli strumenti antichi sono “ammodernati” e che non suonano più come erano nati. E non si dice mai che i violini antichi sono strumenti fragilissimi e delicatissimi che richiedono infinite cure (invece gli strumenti contemporanei non hanno bisogno di nulla, funzionano sempre e non si rompono mai?).

E non si dice nemmeno che certi famosi solisti, pur possedendo strumenti antichi di valore, non di rado, e con fare quasi truffaldino aggiungo io, amano presentarsi al pubblico con strumenti ben più moderni!

E invece noi del pubblico, poveri ingenui, pensavamo di essere di fronte a chissà quale famoso Stradivari o Guarneri.
Purtroppo, secondo il Prof. Meucci, gli strumenti di nuova o recente costruzione non posseggono lo stesso velo di suggestione e di mito che caratterizza gli strumenti antichi. Chissà, mi domando io osservando gli strumenti dei liutai contemporanei, se questo velo mitologico caratterizza anche il suono, oltre che l’apparenza degli strumenti antichi?
Eppure, non riesco a togliermi dalla testa il pensiero che il pensiero che qui si stia tentando di farci capire che le uniche differenze tra violino antico e contemporaneo siano nella testa di chi li osserva e che invece ci sia una equivalenza pressoché assoluta per ciò che riguarda il suono.
E che dire poi di quei “gravi casi di cronaca recente”, in cui le famiglie si sono rovinate investendo cospicui capitali in strumenti del tutto sovrastimati? Lasciamo che siano i “grandi investitori” a prendersi i rischi del caso. Invece uno strumento contemporaneo è un investimento sicuro e sempre garantito? Ai musicisti l’ardua risposta. Ma soprattutto coloro che hanno già fatto incauto acquisto di violini antichi o d’epoca, potranno dormire sonni tranquilli.
Molto onestamente il Prof. Meucci omette di fare una lista dei “migliori” liutai contemporanei, probabilmente temendo una specie di rivolta da parte di altri “migliori” inopinatamente esclusi dall’Empireo. Ci si limita alla vaga segnalazione di una quindicina di maestri che secondo il Prof. Meucci rappresenterebbero il meglio della produzione italiana, ma bisogna prendersi la briga di scoprirli da soli questi “migliori”.
Ritengo che sia una fortuna che il Prof. Meucci non li abbia fatti quei nomi, per quanto mi è dato di sapere, egli non è mai stato né un liutaio, né un musicista, quindi non capisco a chi sia destinato questo suo articolo. Probabilmente non ai musicisti, che pure in molti amano leggere Amadeus, e probabilmente nemmeno ai liutai.

Infine, il Prof. Meucci cede alla tentazione e cita un liutaio e anche l’occasione in cui uno dei suoi strumenti è stato suonato: il M° Greiner e il vincitore dell’edizione 2006 del Premio Paganini, Feng Ning. Questa è la prova provata, inconfutabile ed incontrovertibile: si può vincere un concorso importante anche con uno strumento contemporaneo, senza necessariamente sfoggiare uno strumento antico e dal nome altisonante. Come se nelle passate edizioni del Premio Paganini i concorrenti si siano presentati tutti con strumenti di Stradivari, Guarneri, Amati e via dicendo. Come se il solo fatto di possedere uno strumento antico importante costituisca un biglietto d’ingresso per il paradiso, o il discrimine che distingue il musicista “migliore” da quello “discreto”.

 Si dà il caso che il sottoscritto sia un liutaio dedito solo alla costruzione di strumenti nuovi, niente commercio di strumenti antichi, e che pure dovrebbe essere grato a chi ha perorato in modo così appassionato la causa degli strumenti contemporanei, anche se probabilmente il mio nome non sarà mai compreso nell’Empireo dei quindici “migliori”. E forse dovrò accontentarmi solo di aver permesso a molti studenti di conservatorio di diventare musicisti “discreti”.
Le considerazioni fatte in questo articolo mi offendono, così come offendono la dignità del lavoro di molti colleghi che pure affrontano la loro fatica quotidiana con coscienza e passione, che ogni giorno studiano il lavoro degli antichi maestri per capirne non solo l’aspetto tecnico, ma anche quell’essenza spirituale che nell’articolo viene definita come “velo di mito e suggestione”. Si vorrebbe far intendere che ormai la liuteria classica non ha più segreti, e che magari non esistano più incertezze e lacune riguardo gli strumenti antichi, ma così non è e non sarà mai.

Oggi in una realtà di mercato globalizzato che funesta anche la produzione liutaria contemporanea, il “miglior” liutaio è quello che riesce a sviluppare e a tener fede ad una propria identità, a non cedere alle tentazioni stereotipizzanti di un certo mercato, a contenere la propria produzione nei limiti dell’umano senza ricorrere all’aiuto delle macchine utensili a controllo numerico e a fare a meno di strumenti e pezzi prelavorati in Cina o nell’est europeo.

 Ovviamente il mercato del violino antico ha, da sempre, le sue contraddizioni e i suoi problemi: il modo in cui vengono redatti i certificati e vengono realizzati i restauri sono spesso causa di controversie tecniche e legali. Ma è soprattutto la quasi totale mancanza di controllo su ciò che viene stabilito dagli esperti di fama internazionale, quasi sempre senza neppure uno straccio di una documentazione scientifica, come avviene in altri campi dell’arte come la pittura o la scultura.
E’ contro il nostro stesso interesse ergere differenze tra gli strumenti di ieri e quelli di oggi. La continuità della tradizione tra strumento antico e moderno è ancora molto aldilà dall’essere recuperata, paradossalmente è proprio il lavoro di alcuni dei “migliori”, sia italiani che stranieri, ad essere spesso avvolto da un mito artificiale creato a bella posta per la seduzione delle anime belle.

Spero che l’edizione di quest’anno di Mondomusica serva anche a questo genere di riflessioni e non solo a mere questioni di mercato, ma che soprattutto a parlare di liuteria siano i liutai e i musicisti.

Claudio Rampini