Da Kircher a Monteverdi, una storia di violini in chiave alchemica.

Fin dal suo primo comparire il violino non ha mai mancato di far parlare di sé, infatti su di esso sono stati scritti oceani di inchiostro, sia in termini di note musicali, che di parole atte a spiegare il suo funzionamento, il modo di suonarlo e di costruirlo. Semplicemente il violino segna in modo irreversibile un nuovo modo di fare musica, costituendo uno dei caposaldi del patrimonio culturale occidentale.

Di questi oceani di inchiostro, una buona parte è stata usata per descrivere le miracolose proprietà delle vernici antiche, che aldilà di una “impossibile” reale comprensione ne consentisse una continuità nella tradizione, non ha mai mancato di incantare liutai, musicisti ed esperti di tutte le epoche, cioè a dire che sulla vernice classica cremonese si è costruito un vero e proprio mito.

Ma è proprio vero ciò che si dice intorno alle vernici antiche? La risposta può essere positiva e negativa al tempo stesso: si guardi uno strumento ben conservato degli Amati o di Stradivari, questi strumenti emanano ancora oggi una luce che non è solo il riflesso della suggestione della nostra immaginazione eccitata dal trovarsi di fronte ad un meraviglioso violino antico, è che proprio quei legni sono in grado di emanare ancora oggi una luce particolare che nessuna vernice moderna ad oggi è in grado di uguagliare, perché parliamo di un trattamento del legno e di una vernice vera e propria, che in concorso generano rilessi e dicroismi del tutto particolari.

Il fondo del violino “Carlo IX” di Andrea Amati – Museo del Violino – Cremona.

A complicare un quadro già di per sé molto complicato, si ricordino sempre gli oceani di inchiostro summenzionati che inutilmente o quasi hanno tentato di svelare il “segreto” degli antichi liutai cremonesi, è stato il verificarsi di una tradizione che si è interrotta di fatto dopo la morte di Giuseppe Bartolomeo Guarneri detto “del Gesù”, e che nell’aspetto della vernice antica non ha dato altre prove di esistenza dopo G.B. Guadagnini (e non tutti i suoi strumenti recano la vernice “all’antica”).

Quindi, se da una parte è rimasto un grosso punto interrogativo sulla formulazione e i procedimenti delle vernici antiche, dall’altra ancora oggi non finiamo di ammirarne la bellezza, non esclusi nemmeno quegli strumenti cremonesi antichi che di vernice originale ne hanno pochissima, che spesso sono ricoperti da strati protettivi a base di gommalacca, ma il cui legno appare immutabilmente preparato affinché la luce vi penetri in profondità rivelandone tutta la tridimensionale bellezza.

Si è pensato spesso che il legno venisse trattato in modo particolare, oppure che tanta bellezza fosse il risultato derivato dalla naturale ossidazione, ma di fatto gli strumenti costruiti dalla seconda metà del 1700 fino ai giorni nostri, mostrano apparenze e luci diverse dagli strumenti costruiti nelle epoche precedenti.

Molti liutai di ieri e di oggi sono andati alla ricerca di un mitico “fondo dorato”, di cui ho spiegato i principi nel mio articolo “Antonio Stradivari, Benvenuto Cellini e i segreti della luce” (C. Rampini 1996), che di fatto rende la dinamica della luce delle vernici antiche simili a quella con cui venivano trattati i gioielli dell’arte orafa tra Rinascimento e Barocco, senza per questo giungere a qualcosa di lontanamente paragonabile ai capolavori antichi della liuteria.
Va comunque detto che ogni epoca ha prodotto i propri capolavori, ed anche in campo liutario non possono essere trascurati pregiati strumenti tra 1800 e 1900 che comunque condividono onorevolmente la gloria del violino, ma di fatto sono strumenti che per luce e stile sono molto diversi da quelli antichi della classicità cremonese.

A onor del vero anche oggi che la composizione della vernice antica cremonese non è più un mistero, poiché ripetute analisi chimico-fisiche e ricerche storiche e documentali (si legga il mio articolo “Riflessioni su una frase di Antonio Stradivari – da una lettera del 13 Agosto 1708 – C. Rampini 1995), ci hanno confermato della presenza di vernici di natura oleoresinosa, ancora gravi interrogativi rimangono sul suo modo di colorarla e di applicarla, e ancora più grande è il “mistero” che riguarda la preparazione del legno affinché ne venga resa reale la mitologia del famoso “fondo dorato”.

Fondo trattato di un violino di Claudio Rampini 2017

I modi di trattare il legno pure anche strettamente legati alla nostra tradizione storico-artistica, sono pressoché infiniti, ed anche di fronte a risultati esteticamente convincenti, non abbiamo al momento prove evidenti di essere giunti a qualcosa di paragonabile ai legni degli strumenti antichi.

Nota bene, qui parliamo di vernici e preparazioni del legno, trascuriamo per amore di concisione e brevità il loro ruolo acustico, perché è essenziale che il “problema vernice” vada scomposto nelle sue parti affinché siano oggetto di studio serio ed attendibile. Va da sé che le positive influenze sul suono delle vernici oleoresinose realizzate secondo ricette e metodi antichi (la più classica e comune: colofonia cotta con sali metallici ed unita ad olio di lino nella proporzione consueta di 1:1), siano accadute in modo quasi casuale, poiché la loro natura leggera ed elastica, unitamente a strati insolitamente sottili (almeno rispetto alle moderne vernici poliresinose a base alcolica), hanno indubbi effetti positivi sul suono di un buono e ben costruito strumento ad arco.

Un liutaio alla Sapienza.

La IUC (Istituzione Universitaria dei Concerti), organizza stagioni concertistiche di grande livello, laddove il repertorio cameristico occupa uno spazio ragguardevole (a mio parere una delle migliori realtà della musica da camera), in cui spesso si ha occasione di ascoltare strumenti ad arco entrati nella leggenda.

Ripenso al Quartetto di Cremona quando si è esibito con quattro strumenti di Antonio Stradivari appartenuti a Nicolò Paganini, al violino “Maréchal Berthier” sempre di Stradivari costruito nel 1716, oggi suonato da Anna Tifu, al violoncello “Hill” del 1749 di Giovanni Battista Guadagnini suonato da Nicolas Altstaedt, al Guarneri del Gesù del 1744 suonato da Uto Ughi. Non solo, anche strumenti di costruzione più recente come il violino Ansaldo Poggi del 1967 suonato da Domenico Nordio, oppure un violino e una viola tra gli strumenti suonati dall’Emerson String Quartet costruiti da Samuel Zygmuntowicz soltanto alcuni anni fa.

Quindi, un’occasione unica per conoscere meglio strumenti meravigliosi, e con essi i musicisti e la loro musica. Un breve spazio di circa mezz’ora, prima del concerto, in cui spiegherò la tecnica e la storia degli strumenti, così da guidare il pubblico ad un ascolto consapevole e coinvolgente

Il primo incontro è previsto per il prossimo 30 Novembre alle ore 16.30, nella Sala Multimediale (entrata Rettorato, Aula Magna della Sapienza) . Si esibirà in concerto Gabriele Pieranunzi con un violino del napoletano Ferdinando Gagliano del 1762, appartenuto alla leggendaria Gioconda De Vito, assieme alla pianista Jin Ju e l’ensemble Philarmonia Chamber Players.

Qui il programma completo del concerto: https://www.concertiiuc.it/events/gabriele-pieranunzi-jin-ju/

La partecipazione all’incontro è gratuita.

Claudio Rampini

Un insegnamento di Remo Bodei.

l filosofo Remo Bodei

Sebbene dimorassimo entrambe a Pisa, non ho mai conosciuto il filosofo Remo Bodei, scomparso in questi giorni lasciando un vuoto incolmabile. L’ho incontrato virtualmente e in periodi più o meno regolari della mia vita attraverso i suoi interventi su RadioTre, i suoi articoli, le sue prefazioni.

Dei suoi libri non ho mai letto nulla perché troppo specialistici, sebbene “Geometria delle Passioni” mi tenti non poco per la possibilità di capire meglio la mentalità e lo spirito dell’uomo antico.

Bodei era un uomo la cui luce intellettuale attraversa senza difficoltà ogni disciplina dello scibile umano e, cosa più importante, riesce a toccare le corde di chiunque abbia la ventura di ascoltarlo e di leggerlo. Non solo perché Bodei parla e spiega le cose più difficili in modo sempre trasparente, senza mai vanificarne il contenuto originale, senza mai farne una divulgazione d’accatto, ma rimanendo nello specifico riusciva a farti capire le cose come mai nessuno è stato capace di fare.

Fu un mattino di qualche anno fa, quando in modo assolutamente casuale ascoltando RadioTre durante un viaggio in automobile, sentii Bodei parlare di “pratica”, “prassi” ed “empirismo” nel contesto dell’ambiente artistico e filosofico delle corti italiane tra 1500 e 1600.

Piccola premessa: noi liutai siamo spesso additati dagli studiosi come esponenti di una setta dedita all’empirismo, cioè a dire che siccome un violino, notoriamente oggetto piuttosto variabile di umore, nonostante gli sforzi degli studiosi abbiano tentato di racchiudere il “segreto” del suono in formule e teorie che trovano applicazione in modo molto parziale nella pratica quotidiana del nostro lavoro, si tenta di spiegare un fenomeno che non si è capaci di capire rinchiudendolo nella parola “empirismo”, che tutto spiega e tutto riconduce ad una rassicurante razionalità.

A mio parere l’unica cosa veramente razionale in uno strumento ad arco è cercare di porlo in vendita e ricavarne un buon guadagno, a parte questo l’arbitrio e il mito regnano supremi.

Pur avendo difficoltà a spiegarlo, io mi sono sempre opposto fieramente ad essere etichettato come “empirico” o come “empirista”. E’ vero che durante il lavoro di costruzione di uno strumento si ricorre all’intuito e al ragionamento induttivo, ma questo non è assolutamente sufficiente a dare dignità alle nostre creazioni.

Sarebbe come dire che la luce nuova, concreta, ed infine magica, dei quadri di Caravaggio nell’incapacità di comprenderla e spiegarla pienamente, la si volesse inquadrare in una sorta di pratica empirica, che non solo riduce il genio stesso di Caravaggio, ma ci allontana in modo insopportabile dalla sua opera.

Il fatto è che la luce di Caravaggio la ritroviamo in ogni suo quadro, ed il suono e la bellezza dei violini di Stradivari, Guarneri ed Amati, li ritroviamo in ogni loro strumento.

Benvenuto Cellini nel suo trattato di oreficeria scrive:

Ma perché per mezzo della pratica si ritrovano bellissimi segreti e s’imparano di molte destrezze così nell’ arte…

Certamente, aggiungo io, la pratica è importantissima perché conduce al perfezionamento dell’esperienza, ma quel che Bodei voleva dire era una cosa diversa: la pratica in certi ambiti disciplinari-artistici diviene “prassi”, ossia la creazione di linee guida che caratterizzano la disciplina stessa, a cui l’artista si attiene per il conseguimento di un certo risultato.

E difatti osservando il lavoro degli Amati, fondatori della liuteria classica cremonese, troviamo il metodo della forma interna per la costruzione degli strumenti, di cui non furono creatori, ma originali prosecutori di un qualcosa che li ha preceduti, unitamente ad un’educazione artistica che ha permesso loro di comprendere e valorizzare una tradizione legata alla lavorazione del legno, che ai loro tempi era da considerare ai vertici della qualità artistica.

Quindi ci si chiede come sia stato possibile che solo in tempi recenti il “segreto” della liuteria cremonese non sia da considerare più tale, e che da linee guida dettate dalla forma interna e dall’uso delle vernici ad olio, si sia passati alla forma esterna e alle vernici ad alcool, pur avendo a disposizione tutte le conoscenze necessarie per ricollegarsi all’antica tradizione cremonese.

E difatti se lo chiedeva anche Fernando Sacconi, quando insieme al suo allievo ed amico Francesco Bissolotti, riordinarono gli attrezzi della bottega di Stradivari, donati dall’opera munifica di Giuseppe Fiorini.

E ce lo chiediamo ancora oggi: perché nonostante le evidenze di una disciplina consolidata in quasi 200 anni (dalla prima apparizione del violino moderno ad opera di Andrea Amati, agli ultimi strumenti di Guarneri del Gesù), la liuteria abbia preso strade così diverse, segnando di fatto una rottura traumatica con la tradizione antica.

Possiamo capirlo per i liutai ottocenteschi che non ebbero possibilità di accedere direttamente agli strumenti originali e che niente o poco sapevano delle tradizioni che li precedettero, ma oggi alla luce delle evidenze sull’uso della forma interna, la lavorazione a cassa chiusa dei filetti e delle sgusce, l’uso delle vernici ad olio, ci si ostini a costruire veri e propri ibridi, che in modo fraudolento e forzato si vogliono ricondurre alla tradizione antica cremonese.

Il concetto di “prassi”, così bene espresso dal filosofo Bodei, ovviamente non deve essere inteso come schiavitù ad un metodo, ma dato che il metodo stesso della forma interna, il cui disegno lascia ampi margini alla creatività del liutaio, deve oggi essere preso molto bene in considerazione proprio perché negli ultimi 200 anni ha visto una incredibile stratificazione fatta di “misteri esoterici” e ricerche pseudo scientifiche che ci hanno allontanato non solo dal concetto della liuteria originaria, ma anche da una dimensione del suono per cui i violini moderni suonano in modo sempre diverso, per non dire peggiore, da quelli originali antichi.

Così come Stradivari si è evoluto partendo dal lavoro degli Amati, e come Guarneri del Gesù si è evoluto seguendo l’esempio stradivariano, al tempo stesso noi potremmo fare lo stesso, solo che lo volessimo.

Claudio Rampini liutaio

bibliografia essenziale:
I "Segreti" di Stradivari - Fernando S. Sacconi
Dell'oreficeria - Benvenuto Cellini

Sulla scomparsa di Renato Scrollavezza

Con la morte di Renato Scrollavezza, avvenuta lo scorso 14 ottobre, scompare una delle figura che più hanno segnato il panorama liutario italiano contemporaneo.

A titolo di cronaca ricordo che nel gennaio del 2019 e nel febbraio 2018 ci lasciarono rispettivamente Francesco Bissolotti e Giobatta Morassi, altri due giganti della liuteria italiana che non solo hanno caratterizzato un’epoca con i loro strumenti, ma anche con i loro insegnamenti.

Infatti, tralasciando al momento le evidenti differenze di stile dei loro strumenti, quel che unisce Scrollavezza a Morassi e Bissolotti, è l’attività ininterrotta dedicata all’insegnamento, che ha formato molti giovani.

Questo è stato possibile perché fin dagli anni ’70 la liuteria italiana è da ritenersi un fenomeno in evoluzione che riguarda un numero considerevole di nuovi liutai. Non è più come accadeva nel 1800 fino a tutti gli anni ’50, che la figura del liutaio fosse relegata in una romantica solitudine, ma con lo sviluppo del mercato degli strumenti con l’oriente, in grado di assorbire una quantità apparentemente infinita di strumenti ad arco, ecco che la liuteria conosce un nuovo fiorire.

Questo non ha significato che la liuteria contemporanea nella seconda parte del 1900 sia stata e sia tutt’ora rosa e fiori, poiché specialmente Cremona ha sviluppato un singolare stile cremonese moderno piuttosto artificioso e purtroppo ben lontano dall’originalità così bene espressa da figure come Sacconi, Poggi, Capicchioni, Galimberti, solo per citare tra i più importanti.

Ritengo che la scuola parmense di Scrollavezza abbia saputo mantenere i caratteri originari, formando liutai che per metodo e stile esprimono ancora oggi ottimi livelli di personalità.

Altro particolare da non trascurare, è che Bissolotti, Morassi e Scrollavezza, non sono mai stati inclini ad assecondare i capricci del mercato producendo strumenti antichizzati, che a mio parere rappresentano una vera e propria minaccia per lo stile italiano, infatti uno strumento antichizzato finisce con il seppellire la personalità del liutaio sotto una fredda riproduzione fotografica di uno strumento antico, che oltre a costituire un vero e proprio feticcio, spesso è così povera dal punto di vista delle proprietà sonore.

Ciascuno a proprio modo, Scrollavezzza, Bissolotti e Morassi, proprio questo ci hanno insegnato: mantenere i caratteri di una tradizione significa non tradire le proprie origini, sicuri che sulla traccia dell’esempio che ci hanno lasciato, anche il giovane liutaio di belle speranze potrà fare qualcosa di buono da ricordare.

VENEZIA – CREMONA: LA VIA DELLA MUSICA

A settembre, presso le Sale Apollinee del Teatro La Fenice di Venezia, è stato presentato il progetto ”I Violini di Vivaldi. Venezia-Cremona: la via della musica”, un progetto molto articolato e di grande rilevanza culturale, sostenuto dal Museo del Violino di Cremona e dall’Istituto Santa Maria della Pietà di Venezia, lo stesso in cui venivano educate alla musica le misteriose “Putte del Choro” di Antonio Vivaldi.
Si tratta di un intervento finalizzato allo studio, al restauro e alla valorizzazione della preziosa collezione di strumenti ad arco rimasta custodita, per oltre tre secoli, nell’istituto in cui Antonio Vivaldi prestò servizio dal 1703 al 1740.

La collezione comprende 17 strumenti: 12 violini, 1 viola, 2 violoncelli e 2 contrabbassi che riportano celebri firme di liutai come Matteo Goffriller e Pietro e Andrea Guarneri. Sono strumenti considerati doppiamente pregiati in quanto, oltre a essere contemporanei alla permanenza di Vivaldi all’interno dell’istituto, a differenza della quasi totalitá degli strumenti di quell’epoca, non sono mai stati sottoposti a ritocchi di mantenimento o aggiornamento, conservando così l’originalità che li rende speciale oggetto del desiderio di molti specialisti del settore. Si tratta di una delle poche collezioni barocche rimaste inalterate nei secoli: dal Settecento in poi gli strumenti non sono più stati utilizzati, quindi oggi presentano i segni del tarlo e le tipiche imperfezioni causate dall’antico uso.

Violoncello di Matteo Goffriller, 1708

L’intervento di restauro durerà circa un anno e verrà realizzato dal Laboratorio Arvedi – specializzato in diagnostica non invasiva –  dell’Universitá di Pavia che si trova all’interno del Museo del Violino a Cremona.
Qui, oltre all’azione anti tarlo, gli strumenti verranno sottoposti ad una documentazione fotografica in visibile e a ultravioletti e a successive indagini scientifiche seguite poi dal restauro.

La finalità del progetto comprende il restauro, ma anche la valorizzazione dei preziosi strumenti: una volta tornati a Venezia, con la collaborazione del teatro La Fenice, una parte di essi ritornerà in vita grazie all’utilizzo da parte di alcuni professori orchestrali, all’interno del Progetto “Vivaldiana” che si terrà presso il Teatro Malibran.
Nel frattempo le bacheche dell’Istituto della Pietá non resteranno vuote: nell’ambito della mostra “Ad arco e a pizzico” la Fondazione Cremonese presterà 14 strumenti, attualmente esposti al Museo del Violino, realizzati dagli studenti della Scuola di Liuteria di Cremona.

Violino di Andrea Guarneri, 1654

I costi dell’intervento di restauro verranno individuati in corso d’opera e saranno affrontati principalmente dai fondi dell’Istituto della Pietà. Nel corso della conferenza stampa lasua Presidente Maria Laura Faccini si è rivolta ad associazioni ed istituzioni private e pubbliche, invitando ad una collaborazione per sostenere la realizzazione del progetto.

L’Istituto di Santa Maria della Pietà è stato fondato nel 1346 e può ritenersi il più antico istituto al mondo che si occupa di tutela e protezione dell’infanzia abbandonata. A partire dall’anno 1598, all’attività principale ha affiancato quella musicale rivolta al recupero delle piccole orfane. Antonio Vivaldi ha operato al suo interno ricoprendo l’incarico di Maestro di Concerti per quasi 40 anni, componendo per le virtuose dell’Orchestra ben 520 pezzi; si occupava, inoltre, degli strumenti musicali, relativamente alla scelta e all’assegnazione alle “putte” tenendo conto delle caratteristiche individuali, cioè degli stessi “gioielli” che oggi, per la prima volta da allora, si accingono ad essere studiati e restaurati a Cremona.

Il progetto “I Violini di Vivaldi” è promosso da Istituto per l’Infanzia “Santa Maria della Pietà” Venezia e Fondazione Museo del Violino Antonio Stradivari Cremona ed è realizzato in collaborazione con Istituito di Istruzione Superiore Antonio Stradivari Cremona, Cultural District of Violin Making Cremona, Fondazione Cariplo, Michelangelo Foundation e Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte

Grazia Rondini www.lachiavediviolino.it