Da Kircher a Monteverdi, una storia di violini in chiave alchemica.

Quindi come pensare, aldilà di un semplice sospetto, che gli Amati nella realizzazione dei propri strumenti, verniciati in modo mirabile e luminosi al pari dei gioielli, non avessero seguito la ricerca dell’oro secondo la tradizione alchemica? Non era nemmeno necessario che fossero essi stessi alchimisti, poiché il sapere alchemico aldilà dei segreti più o meno presunti e dichiarati, faceva comunque parte della mentalità del tempo, e quello dell’artista è il compito di fornire al proprio committente un’opera unica e superiore alle altre, in poche parole, che avesse quella particolare “alchimia” che riuscisse a catturare il cuore e la mente dell’osservatore.

Come pensare che il Caravaggio fosse anch’egli dedito alla ricerca alchemica per lo studio di una nuova luce da dare alle proprie opere, aldilà di un suo unico affresco realizzato per il cardinale Francesco Maria Del Monte, alchimista egli stesso, nel casino di Villa Ludovisi? Nessuno oggi ha il dubbio che quel luogo fosse un vero e proprio gabinetto in cui il cardinale si dilettasse con l’alchimia, praticamente tutti i cardinali e nobili romani dell’epoca si dilettavano di alchimia, e nell’affresco il Caravaggio dipinse Pluto, Nettuno e Giove, che nella tradizione alchemica rappresentano i tre stadi di aggregazione della materia.

Il paradosso è dato dal fatto che se da una parte moltissimi si dilettassero di alchimia, dall’altra è anche da considerare che il clima della Controriforma non aiutava certo ad esternare simili pratiche, lo stesso Kircher fu tacciato più volte e messo in serie difficoltà dalle accuse di pratica della magia bianca.

Ma ricollegare questo diffuso clima di ricerca alchemica all’opera degli Amati, non andava aldilà di una semplice supposizione, seppure supportata dal “fondo dorato” dei loro legni, che pure questi antichi liutai potevano aver realizzato grazie ad una geniale intuizione.

Ma furono ancora le lettere di Galileo e Padre Micanzio a farmi progredire nella ricerca, poiché in una di esse venne fatto il nome di un certo “Signor Claudio Monteverdi”, il grande compositore cremonese ritenuto il creatore del melodramma italiano, che all’epoca era un vero e proprio agente di promozione dei violini di Nicolò Amati, infatti anche se nella lettera di Padre Micanzio non si fa espressamente il suo nome, non vi è alcun dubbio che l’unico liutaio cremonese che avesse raggiunto fama e prezzi ragguardevoli per i proprio strumenti, fosse proprio lui: Nicolò Amati.

Lettere – Claudio Monteverdi

Fortunatamente oltre alle opere musicali, Monteverdi ci ha lasciato anche alcune lettere in cui parla espressamente di alchimia e pratiche alchemiche, e che egli, figlio di un medico e farmacista, al seguito del Duca di Mantova, avesse perfezionato tale arte in un suo viaggio a Praga (città importante per quanto riguarda la tradizione alchemica), al punto che anche alcune sue opere sembra furono composte sulla traccia dei principi alchemici, una sorta di “affinità elettive” ante litteram di goethiana memoria, per non parlare del cenacolo alchemico che pure era presente alla corte del Duca di Mantova.

Quindi il quadro poteva essere un po’ meglio definito: era lecito pensare che Monteverdi, violinista e gambista, compositore ed alchimista, grande estimatore e forse amico del liutaio concittadino Nicolò Amati, lo avesse ispirato a costruire strumenti ancora migliori e con una migliore vernice, magari offrendogli qualche suggerimento derivato dalla propria esperienza nell’alchimia.

Poiché, ripeto ancora una volta, quella degli strumenti degli Amati non è da ritenersi una luce che sia frutto dell’improvvisazione, ma una ricerca paziente, mirata e determinata dell’oro, seppure in forma simbolica, ed in liuteria, senza nemmeno forzare troppo l’immaginazione, la creazione dei gioielli musicali avviene lavorando materiali semplici, per non dire “vili”, così come l’alchimista, nella tradizione popolare, secondo le sue migliori intenzioni trasforma il piombo in oro.

La prova provata che gli Amati, o magari solo qualcuno della famiglia, avesse raggiunto l’eccellenza grazie all’alchimia non credo che l’avremo mai, sebbene gli indizi che ci portino ad essa, grazie a Monteverdi, ce lo facciano pensare.


Tuttavia, grazie ad un’amica musicista e direttrice d’orchestra specializzata in musica antica, un giorno mi fece menzione di un’autobiografia di un rabbino che visse a Venezia: Leon Modena “Vita di Jehudà” (1571-1648), che si dà il caso fosse contemporaneo di tutti gli artisti, scienziati e religiosi, che finora abbiamo nominato. Il fatto è che questi protagonisti del “secolo d’oro” (così è chiamato il periodo di fine 1500 a tutto il 1600, guarda caso l’oro lo troviamo anche qua, seppure in forma politica e militare riguardante la Spagna. Ma dobbiamo anche pensare che la Spagna, il Ducato di Milano e Cremona, fossero al tempo intimamente legati), non si siano mai incontrati, sebbene non si possa escludere che la fama di almeno alcuni di essi abbia superato i confini delle città in cui hanno vissuto.

Ma perché proprio la vita di Jehudà avrebbe dovuto interessarmi? A mettermi la pulce nell’orecchio fu la mia amica suddetta, che dopo aver letto il libro e avermi raccontato divertita di un episodio in cui il rabbino Leon Modena fosse angustiato dalle pratiche presumibilmente poco ortodosse di un alchimista in vena di esperimenti.

L’autobiografia di Leon da Modena, rabbino veneziano.


Procuratami l’opera di e dopo averne data lettura, appresi non senza un sentimento di sorpresa che anche a Venezia si praticasse a vario titolo e grado l’arte dell’alchimia. Di più, uno dei figli di Leon Modena, dopo avere appreso l’arte da un prete cattolico, fu in grado di produrre argento autentico mettendo insieme 9 once di piombo con una di argento, e che il metallo risultante fosse in grado di superare tutte le prove di autenticità che allora si era in grado di sostenere, riuscendo anche ad ottenervi un grande guadagno.
Tuttavia, il procedimento richiedeva pratiche ed esperimenti della durata di due mesi e mezzo, e che fosse anche pericoloso per la salute fu dimostrato dal fatto che il figlio di Leon si ammalò, si dice per i fumi di arsenico che aveva respirato nel procedimento, fu quindi costretto ad abbandonare ogni pratica alchemica e dopo breve malattia morì.