Aldilà degli esiti infausti, il resoconto di Leon Modena, che certo si può dire autentico, dato il clima per niente incline all’autocelebrazione con cui egli redasse la propria biografia (a differenza della “Vita” di Cellini, in cui l’artista certo non mancava di autostima), ha contribuito a gettare una luce nuova sulla pratica alchemica nell’ambiente artistico e artigianale del secolo XVII°, cioè a dire che il mondo ebraico e quello cristiano erano intimamente uniti non solo dal fatto di avere un Dio in comune, pur con le note differenze di credo, ma che insieme coltivassero arti e simbolismi tipici dell’arte alchemica, che può essere senza dubbio considerata l’anello di congiunzione che lega indissolubilmente le due religioni.
Infatti, Kircher nella sua infinita sapienza, conosceva ventidue lingue tra cui anche l’ebraico, ed aveva contezza del patrimonio simbolico della Cabala ebraica e di tutte le arti che conducevano ad una dimensione esoterica, compresa l’alchimia, e sulla scorta di questo patrimonio simbolico egli ha lavorato e pubblicato libri sui geroglifici egiziani. È improprio affermare che Kircher abbia dato una traduzione dei geroglifici, poiché il suo interesse è stato appunto quello di rintracciarvi un simbolismo religioso, utile anche per una migliore comprensione del Vecchio Testamento.
Basta prendere un qualsiasi dizionario dei termini alchemici, ed anche una persona che non è molto preparata sull’argomento non può fare a meno di notare come moltissimi di essi siano derivati dall’ebraico e dall’arabo. Che la tradizione alchemica sia legata all’ebraismo, assieme alle arti della medicina, dell’arte e dell’artigianato che pure in questo ambito etnico furono espresse spesso con eccellenza, è cosa di cui ci si può accertare leggendo qualsiasi opera antica sull’ebraismo, così come è stato quasi scontato che Leon Modena citasse la pratica dell’alchimia nella vita quotidiana del suo tempo.
Molto importante è stato osservare il flusso delle migrazioni ebraiche nell’Italia Settentrionale, in particolare nell’area bresciana e cremonese, artigiani specializzati nella lavorazione dei metalli e del legno, che pure tra una persecuzione e l’altra sono riusciti a prosperare anche grazie al prestito di denaro, così bene raccontato in una piccola opera “Gli Ebrei a Cremona” curato da Giovanni B. Magnoli, che apre uno spaccato sulla vita quotidiana cremonese tra 1500 e 1600, non solo per le vicende legate agli Ebrei.
Il cerchio sembra infine chiudersi con la figura di Giovanni Leonardo da Martinengo, ebreo convertito figlio di Moisè, liutaio operante a Cremona nella prima metà del 1500, che un documento originale riporta a mo’ di censimento, come “pater” di professione (ufficialmente un rigattiere, dall’arte della “pataria”), che ebbe a dimora due “famigli”: Andrea e Giovanni Antonio – liuter, di cui sono venuto a conoscenza grazie alla ricerca di Fausto Cacciatori (Conservatore del Museo del Violino di Cremona).
A conti fatti gli ebrei presenti nella città di Cremona nel 1500 si contavano a poco più di quattro centinaia circa, la domanda sorge spontanea: quanti potevano essere quei giovani liutai il cui nome fosse Andrea? Esiste una sola risposta ed è la seguente: quel giovane liutaio era Andrea Amati, il cui cognome è oltretutto di chiare origini ebraiche, così come documentato da un’altra interessante opera: I cognomi degli Ebrei in Italia, Samuele Schaerf 1925. A questo proposito è necessario precisare che il libro di Schaerf non è da taluni considerata attendibile, essa è stata citata solo ai fini di un ulteriore indizio e spunto per ulteriori e più approndite ricerche.
Monica Huggett, professionista del violino barocco molto conosciuta ed apprezzatissima, nonché docente di grande prestigio, afferma che le origini del violino non abbiano sede né a Cremona, né a Brescia, ma furono gli Ebrei ad elaborarlo nella sua forma moderna (Simposio biennale del violino alla Juilliard School, 2009). Ma questo a noi poco interessa, poiché è più lecito pensare che pur essendo gli Ebrei portatori di grandissime abilità artistiche e di una profondissima cultura, gli elementi che hanno portato all’elaborazione del violino moderno sono da intendersi come il frutto di un patrimonio collettivo, così come l’arte dell’alchimia non fosse esclusiva degli Ebrei, e che spesso anche in epoche antiche, la convivenza tra Ebrei e Cristiani avvenisse senza soluzione di continuità e senza pregiudizi tali da portare all’odio razziale.
Tuttavia l’appartenenza degli Amati al mondo ebraico, non è dato sapere con sicurezza se fossero osservanti oppure convertiti, apre scenari completamente nuovi e quella collaborazione che ha visto per protagonisti Claudio Monteverdi e Nicolò Amati non sia stata affatto casuale, e che Amati stesso abbia tratto dalla propria famiglia lo spunto di eccellenza per cui i suoi violini mostrino intatti quei sottofondi dorati, che a me piace pensare come la ricerca della “luce di Dio”, la stessa di cui ci ha parlato Athanasius Kircher nelle sue opere, seppure finalizzata alla vendita di un bellissimo strumento ad arco, proprio perché facente parte del loro patrimonio culturale.
Questo credo che possa dare ispirazione a noi liutai del ventunesimo secolo, non tanto per riprodurre fotograficamente i capolavori del passato, ma per ricollegarci a ragion veduta ad una tradizione simbolica
perduta, cercando e sperimentando quei materiali che portino nuova luce nel trattamento dei nostri legni.
Claudio Rampini 1/9/2018