Gil Shaham e il concerto per un angelo.

Giovedi scorso si è esibito con l’orchestra di Santa Cecilia il violinista Gil Shaham, che lo ha visto protagonista del concerto per violino di Alban Berg. Un concerto impegnativo sotto tutti i punti di vista, sia per l’interprete, che deve affrontare difficoltà tecniche ed espressive non comuni, sia per il pubblico, che davanti ad opere del pensiero dodecafonico si vede spesso disorientato.

Ma non ho mai creduto che siano le dissonanze e le imperve armonie della dodecafonia a scoraggiare i più dall’ascolto di questo tipo di musica, bensì è il fatto che le persone non sanno quasi mai che quadro rappresentarsi in questi casi. E’ un problema educativo, non di difficoltà di accesso.

Per fortuna, ai fini dell’intelligibilità del concerto, Berg ci ha lasciato tracce evidenti che consentono l’accesso al suo pensiero e alla sua anima. Questo concerto fu dedicato alla memoria di una giovane adolescente morta proprio in quei mesi in cui Berg era occupato nella sua stesura, ma dovremmo intenderlo come un’ampia apertura ad una sorta di trascendenza, libera da ogni misticismo.

E’ vero che nella sua estrema trasparenza e nitore, in questo concerto le lacrime di dolore si contano una ad una, ma vi sono presenti anche intensi impulsi di straordinaria vitalità. Un Berg talmente in anticipo sui tempi, che ha perfino avuto il modo di scrivere un requiem per sé stesso, si potrebbe dire, visto che sarebbe scomparso da lì a qualche mese.

Gil Shaham ha affrontato tutto questo con grande tatto ed energia, mai cedendo a tentazioni virtuosistiche e rendendo quelle note più che intelligibili, una tecnica impeccabile unita all’ingenuità di un bambino che induce l’ascoltatore all’abbandono.

Il violino su cui si è esibito Gil Shaham è uno Stradivari “lungo”, ossia uno di quegli strumenti che il grande liutaio cremonese concepì nel decennio 1690-1700 (anche Kavakos suona su uno strumento simile), e più precisamente il “Contessa di Polignac” del 1699, uno strumento splendidamente conservato e dotato di un suono di rara bellezza.

Alla fine degli anni ’80 del 1900 Charles Beare osservava che i modelli “lunghi” stradivariani forse cedevano qualcosa in termini di prontezza, ma che comunque erano bene all’altezza degli strumenti migliori costruiti nel cosiddetto “periodo d’oro”, ed io mi trovo completamente d’accordo, posso solo aggiungere che ho avuto poche occasioni di ascoltare bassi così corposi in un violino.

Anche questo fu uno dei violini curati dal leggendario liutaio romano Fernando Sacconi e certificato assieme a Rembert Wurlitzer tra gli anni ’50 e ’60 del 1900.

testo e fotografie di Claudio Rampini