Lo scorso 24 Giugno assieme ai liutai Marco Vinicio Bissolotti e Wanna Zambelli, si è celebrata una giornata di commemorazione e studio dedicata a Simone Fernando Sacconi nel 50° Anniversario della sua scomparsa, presso il Museo del Violino di Cremona.
Il mio intervento è consistito nel fare una disamina de “I ‘segreti’ di Stradivari”, il libro dato alle stampe da Sacconi nel 1972, prima ed unica edizione di un’opera fondamentale per la liuteria e la musica e mio riferimento costante di ricerca e di studio in tutta la mia vita dedicata alla liuteria.
Ringrazio i già citati Marco Vinicio e Wanna Zambelli per la fiducia e anche il curatore e la direttrice del Museo del Violino, Fausto Cacciatori e Virginia Villa per la stima e lo spazio che mi è stato concesso. Un ringraziamento particolare è dovuto ai liutai cremonesi che hanno assistito e condiviso il mio intervento.
Ho pensato quindi di riproporre il mio intervento su Youtube a beneficio di coloro che hanno avuto occasione di partecipare e degli appassionati e studiosi di liuteria e dell’opera di Sacconi.
Nei video si affrontano i principali argomenti del libro di Sacconi: il disegno della forma, il metodo costruttivo classico cremonese, la vernice, argomenti che ho diviso per ciascun video appositamente dedicato.
Il mio amico Enrique qualche anno prima di morire mi disse “Claudio, tu scriverai il mio epitaffio.” o qualcosa di simile che potesse ricordare degnamente la sua scomparsa.
Io però non lo presi troppo sul serio perché a distanza di più di 3 anni non ho scritto niente su Enrique perché figuriamoci se una persona famosa come lui potesse avere bisogno di un emerito sconosciuto come il sottoscritto per una responsabilità così importante.
Però una volta il mio amico Enrique mi chiese di scrivere al Papa, perchè era una di quelle soddisfazioni che avrebbe voluto togliersi prima di lasciare questo mondo: poter incontrare Papa Francesco e finalmente potergli dire “Figlio mio!”, e abbracciarlo affettuosamente.
Sì, perché il mio amico Enrique, e lo dico con grande senso di orgoglio è stato il protagonista di uno dei film più celebrati di sempre, non sto qui a ricordarne il titolo perché tutti sanno che Enrique interpretò Gesù nostro Signore e Guida nel film di Pier Paolo Pasolini, e che questo ruolo Enrique ha in qualche modo giocato per tutto il resto della sua vita, e per questo esatto motivo mi chiese di scrivere al Papa.
Ed il Papa rispose, seppure per interposta persona del suo segretario, inviando una cortese disponibilità per un’udienza pubblica, nella busta era contenuta anche una foto di Papa Francesco, giusto per ribadire che sul soglio di Pietro non c’è Gesù che tenga. Ma Enrique lasciò perdere tutto, la sua era una richiesta per un’udienza privata, a tu per tu, e non una di quelle cose che stai in mezzo alla folla e il Papa lo puoi vedere solo da lontano.
Io ed Enrique eravamo un po’ come Don Chisciotte e Sancho Panza, nel senso che lui era il cavaliere di belle speranze ed io il suo servo sempre a disposizione, pronto anche a dargli qualche consiglio. Perché fra noi due chi prendeva fuoco e avvampava furiosamente era lui, io un poco mi scaldavo al suo calore, ma anche mi divertivo un mondo perché il suo furore non conosceva limiti e rispetto per nessuno. Enrique in questo possedeva il senso assoluto della democrazia, l’ipocrisia non gli apparteneva e gli uomini erano tutti uguali. Le donne però erano un pò meno uguali, perché nella vita di Enrique, come in quella di Don Chisciotte, la Donna ha fatto veramente la differenza.
Infine anche Angela Molteni, la mia amatissima e compianta maddalena pasoliniana, se ne dovette fare una ragione e parlando di Enrique, che eternamente irrequieto entrava e usciva dalle relazioni umane, ne emergeva un grande affetto, pur tra mille contraddizioni anche Enrique nutriva per Angela un grandissimo affetto, tant’è che per la sua scomparsa fu proprio Enrique ad interessarsi affinché il patrimonio pasoliniano di Angela non andasse disperso.
Un giorno mi trovai disperso e allontanato ingiustamente dalla cerchia di nostri amici comuni, cosa che mi gettò nello sconforto e nell’amarezza, ma venni contattato da un oscuro personaggio tedesco del tipo “Heinrich Heisenberg”, o qualcosa di simile, ma che in realtà era proprio Enrique che segretamente e sotto mentite spoglie mi offriva il suo supporto facendo la spia e comunicandomi le trame dei miei nemici.
Più che suo servitore, io mi sono sentito un poco suo figlio, e per questo credo di averlo deluso quando gli confessai la mia profonda avversione per il gioco degli scacchi, che invece lui adorava, ma che potevo farci? il nostro era un rapporto franco e sincero, io non ho mai pensato di dirgli una cosa per un’altra, e credo neanche lui.
Poi venne il giorno in cui una certa giornalista pubblicò un libro che io ritenevo molto discutibile su Pasolini, e ne scrissi una recensione così feroce, che la giornalista leggendola minacciò seriamente di querelarmi. Ma io non avevo usato un linguaggio offensivo e tantomeno volgare, avevo solo stroncato quell’opera a mio avviso indegna così come farebbe qualunque critico.
Ma io non ero un critico, ero solo un lettore appassionato di letteratura e di Pasolini che ebbe il torto e la presunzione di stroncare un libro che non avevo neppure letto. D’altra parte non c’è bisogno di mangiare il piatto di zuppa se già prima di assaggiarla avverti un odore disgustoso!
In quell’occasione fu proprio il mio amico Enrique che mi salvò, perché prese apertamente le mie difese in nome dell’affetto che provava per me, ma sopratutto a difesa del diritto di parola e di pensiero.
Ecco, Enrique era uno stratega ed io il suo opposto, e come è noto gli estremi si toccano, e quindi andavamo perfettamente d’accordo. Solo una volta, quando Enrique voleva spingermi ad una specie di colpo di stato in un gruppo social vagamente pasoliniano, io gli resistetti perché semplicemente mi sembrava inutile spendere energie per una cosa altrettanto inutile. E lui in qualche modo si offese, e penso anche che si arrabbiò con me, ma nei fatti il nostro rapporto rimase invariato e pieno d’affetto, solo che da allora in poi credo che Enrique abbia pensato a me come ad una specie di bradipo in forma umana.
Allora, io tentai di fargli capire che la mia strategia andava oltre alla partita di scacchi, non mi interessava vincere la battaglia, ma puntavo direttamente a Dio, ed i suoi occhi si riaccesero di entusiasmo perché l’idea di andare oltre l’impossibile gli era sempre piaciuta. Enrique odiava la mediocrità, molte persone intorno a lui lo frequentavano solo perché era una persona famosa, e di questo il mio amico ne aveva una precisa ed esatta contezza, e se ne serviva come e più gli piaceva, perché in fondo era sempre lui a muovere le pedine nel suo universo.
Un giorno Enrique mi chiese “Claudio, devi fare un violino speciale che porti il mio nome, passerà alla storia come il violino “Irazoqui del Gesù”, che in effetti suonava un po’ ridondante perché lui era già Gesù in tutto e per tutto, ma riprendendo il più famoso liutaio Guarneri del Gesù, il nome che aveva scelto era perfettamente adeguato alla sua figura. Ed oggi quel violino barocco che porta il suo nome riporta in vita il mio amico Enrique con il suo suono, le nostre battaglie di ragazzi di strada, il nostro comune amore senza tempo per Dulcinea.
E’ vicina la data che ci vede uniti nel dedicare a S. F. Sacconi due giornate nel 50° anno della sua scomparsa. Infatti, il prossimo 24 e 25 giugno presso il Museo del Violino di Cremona, in collaborazione con la sua direzione e i liutai Marco Vinicio Bissolotti, Wanna Zambelli, Claudio Rampini, avremo modo di ricordare la figura di Sacconi e di discutere sulla sua opera in due giornate ricche di eventi. Il programma completo dell’evento è disponibile presso il sito ufficiale del Museo del Violino.
Questo il programma completo della prima giornata:
Simone Fernando Sacconi, una vita per Stradivari – I sessione
sala Fiorini del Museo del Violino, ore 10,00-11,30
Saluti Istituzionali Fausto Cacciatori – Simone Fernando Sacconi e la rinascita della liuteria cremonese Bruce Carlson – La disciplina del restauro: ricerca e applicazione Wanna Zambelli – Simone Fernando Sacconi, padre adottivo dei giovani liutai Marco Vinicio Bissolotti – Francesco Bissolotti e la lezione di Sacconi Comunicazioni: Salvatore Accardo, Peter Beare, Carlos Arcieri
ingresso libero sino ad esaurimento dei posti disponibili
AUDIZIONE SPECIALE “Una vita per Stradivari”
Auditorium Giovanni Arvedi, ore 12,00
violino Simone Fernando Sacconi 1941 Gian Andrea Guerra
Cosa c’è di più bello di un quartetto di Beethoven? la risposta non può che essere una sola: un quartetto suonato bene.
Questa non è semplice retorica, perché se un quartetto di Beethoven è ben suonato, e sappiamo molto bene quanto sia difficile eseguire bene uno qualsiasi dei brani di musica da camera del grande compositore tedesco, e che ad oggi quelle del Quartetto Italiano costituiscano ancora esecuzioni di riferimento, è tutto dire.
Le ragioni sono molteplici e sono quasi tutte legate alla complessità del pensiero musicale di Beethoven, la cui apparente semplicità dei temi non lascia scampo al malcapitato musicista che si lasci incantare dalle apparenze, magari dando un risalto eccessivo alle seduzioni barocche o al rigore tragicamente anticipatorio del repertorio cameristico novecentesco.
Viola Simone F. Sacconi – New York 1934
Insomma, ogni frase di uno qualsiasi dei quartetti di Beethoven, ed in specie gli ultimi cinque della sua produzione creativa, non lascia adito a nessun tipo di superficialità, ma questo non significa che il musicista non debba necessariamente eseguire il tutto con immediatezza e semplicità.
In buona sostanza queste sono state le impressioni di ascolto che ho ricavato il 5 Luglio nell’assistere alle prove prima, e al concerto dopo, dell’ensemble ingleseSacconi Quartet, che a mio modesto parere hanno dato una splendida prova nell’approcciare il quartetto n.14 op. 131 di Beethoven nella bella cornice costituita dalla limonaia di Villa Valvitiano (PG), nel contesto del Trasimeno Festival 2022.
Il motivo che ha spinto me e la collega liutaia Wanna Zambelli ad avvicinare il Quartetto Sacconi risiede principalmente nel fatto che il gruppo suona con ben tre strumenti costruiti da Simone F. Sacconi, rispettivamente due violini del 1927 e del 1932, e una viola del 1934, senza dimenticare un bellissimo violoncello di Nicolò Gagliano del 1781.
In vista del 50° anniversario della morte di Sacconi che cadrà il prossimo 2023, non ci sarebbe modo migliore per celebrare l’evento se non quello di di ascoltare in concerto i suoi meravigliosi strumenti, e di poterlo fare invitando il Sacconi Quartet a Cremona, città amatissima da Sacconi, nella quale ha formato liutai importanti tra i quali Francesco Bissolotti e Wanna Zambelli.
Ben Hancox suona un violino di Sacconi 1927
L’atmosfera informale della prova mi ha permesso di apprezzare fino in fondo le qualità interpretative del Sacconi Quartet, che ha rivelato fin da subito una grande padronanza del repertorio, che nella fattispecie oltre al già citato quartetto op. 131 di Beethoven, hanno eseguito anche “On the street and in the sky” (prima esecuzione in Italia), una composizione che l’inglese Jonathan Dove ha scritto appositamente per il Sacconi Quartet.
La viola Sacconi suonata da Ben Ashwell ha attratto subito la mia attenzione, non solo per la sua indubbia e ineludibile bellezza, ma anche per le sue ragguardevoli dimensioni, si tratta infatti di una viola tenore la cui lunghezza della cassa armonica si avvicina ai 50cm, e considerato che Ben Ashwell non sia un gigante, ma un uomo dalla figura esile ed elegante, e di altezza normale, qualche dubbio sulla suonabilità di uno strumento così particolare mi è venuto. Ma fin dalle prime note ho notato una grande libertà e disinvoltura, tanto che uno strumento così grande, con il passare dei minuti, ha finito perfino per sembrarmi di dimensioni normali.
Hannah Dawson, secondo violino (Sacconi 1932)
Come dicevo in apertura, per me una delle qualità fondamentali per eseguire in modo ottimale uno degli ultimi quartetti di Beethoven , è di farlo con immediatezza e semplicità, il che non deve essere inteso nell’accezione di superficialità e banalità, per questo motivo ho apprezzato molto il Sacconi Quartet, che fin da subito riescono a coinvolgerti in uno spettro sonoro davvero molto ampio, e che riescono a farlo senza retorica, ma con semplicità, appunto.
Perché uno qualsiasi degli ultimi quartetti di Beethoven è animato da una tensione drammatica quasi fuori dall’umano, e la tentazione potrebbe essere quella di esaltare questo aspetto: niente di più sbagliato. Basta Beethoven per questo, non c’è niente altro da aggiungere oltre a ciò che Beethoven ha scritto.
Ben Ashwell e Cara Berridge
Il Sacconi Quartet ha eseguito l’op. 131 a memoria, cioè a dire senza l’ausilio dello spartito, cosa che potrebbe sembrare un particolare di secondaria importanza, ma che Elisa Pegreffi ebbe occasione di rimarcare in una sua memorabile intervista sul Quartetto Italiano, per cui il suonare a memoria e farlo in un contesto cameristico, fa davvero una grande differenza, per cui musicisti e pubblico hanno la possibilità concreta di farsi una cosa sola di fronte al pensiero musicale.
In conclusione, mi è impossibile non spendere ancora qualche parola sugli strumenti di Sacconi: io credo che con questo incontro con il Sacconi Quartet, viene a cadere definitivamente uno dei pregiudizi più duri a morire che riguardano gli strumenti ad arco e che vede contrapposti su due fronti strumenti antichi e moderni: se gli strumenti, come quelli di Sacconi, sono ben costruiti e sono in mano ai musicisti giusti, questa differenza non ha nessun motivo di esistere. Ho ascoltato grande musica eseguita in modo splendido, non mi è venuto di pensare neanche per un attimo agli strumenti, cioè a dire che gli strumenti sono buoni quando smetti di pensarci.
Fin dal suo primo comparire il violino non ha mai mancato di far parlare di sé, infatti su di esso sono stati scritti oceani di inchiostro, sia in termini di note musicali, che di parole atte a spiegare il suo funzionamento, il modo di suonarlo e di costruirlo. Semplicemente il violino segna in modo irreversibile un nuovo modo di fare musica, costituendo uno dei caposaldi del patrimonio culturale occidentale.
Di questi oceani di inchiostro, una buona parte è stata usata per descrivere le miracolose proprietà delle vernici antiche, che aldilà di una “impossibile” reale comprensione ne consentisse una continuità nella tradizione, non ha mai mancato di incantare liutai, musicisti ed esperti di tutte le epoche, cioè a dire che sulla vernice classica cremonese si è costruito un vero e proprio mito.
Ma è proprio vero ciò che si dice intorno alle vernici antiche? La risposta può essere positiva e negativa al tempo stesso: si guardi uno strumento ben conservato degli Amati o di Stradivari, questi strumenti emanano ancora oggi una luce che non è solo il riflesso della suggestione della nostra immaginazione eccitata dal trovarsi di fronte ad un meraviglioso violino antico, è che proprio quei legni sono in grado di emanare ancora oggi una luce particolare che nessuna vernice moderna ad oggi è in grado di uguagliare, perché parliamo di un trattamento del legno e di una vernice vera e propria, che in concorso generano rilessi e dicroismi del tutto particolari.
Il fondo del violino “Carlo IX” di Andrea Amati – Museo del Violino – Cremona.
A complicare un quadro già di per sé molto complicato, si ricordino sempre gli oceani di inchiostro summenzionati che inutilmente o quasi hanno tentato di svelare il “segreto” degli antichi liutai cremonesi, è stato il verificarsi di una tradizione che si è interrotta di fatto dopo la morte di Giuseppe Bartolomeo Guarneri detto “del Gesù”, e che nell’aspetto della vernice antica non ha dato altre prove di esistenza dopo G.B. Guadagnini (e non tutti i suoi strumenti recano la vernice “all’antica”).
Quindi, se da una parte è rimasto un grosso punto interrogativo sulla formulazione e i procedimenti delle vernici antiche, dall’altra ancora oggi non finiamo di ammirarne la bellezza, non esclusi nemmeno quegli strumenti cremonesi antichi che di vernice originale ne hanno pochissima, che spesso sono ricoperti da strati protettivi a base di gommalacca, ma il cui legno appare immutabilmente preparato affinché la luce vi penetri in profondità rivelandone tutta la tridimensionale bellezza.
Si è pensato spesso che il legno venisse trattato in modo particolare, oppure che tanta bellezza fosse il risultato derivato dalla naturale ossidazione, ma di fatto gli strumenti costruiti dalla seconda metà del 1700 fino ai giorni nostri, mostrano apparenze e luci diverse dagli strumenti costruiti nelle epoche precedenti.
Molti liutai di ieri e di oggi sono andati alla ricerca di un mitico “fondo dorato”, di cui ho spiegato i principi nel mio articolo “Antonio Stradivari, Benvenuto Cellini e i segreti della luce” (C. Rampini 1996), che di fatto rende la dinamica della luce delle vernici antiche simili a quella con cui venivano trattati i gioielli dell’arte orafa tra Rinascimento e Barocco, senza per questo giungere a qualcosa di lontanamente paragonabile ai capolavori antichi della liuteria. Va comunque detto che ogni epoca ha prodotto i propri capolavori, ed anche in campo liutario non possono essere trascurati pregiati strumenti tra 1800 e 1900 che comunque condividono onorevolmente la gloria del violino, ma di fatto sono strumenti che per luce e stile sono molto diversi da quelli antichi della classicità cremonese.
A onor del vero anche oggi che la composizione della vernice antica cremonese non è più un mistero, poiché ripetute analisi chimico-fisiche e ricerche storiche e documentali (si legga il mio articolo “Riflessioni su una frase di Antonio Stradivari – da una lettera del 13 Agosto 1708 – C. Rampini 1995), ci hanno confermato della presenza di vernici di natura oleoresinosa, ancora gravi interrogativi rimangono sul suo modo di colorarla e di applicarla, e ancora più grande è il “mistero” che riguarda la preparazione del legno affinché ne venga resa reale la mitologia del famoso “fondo dorato”.
Fondo trattato di un violino di Claudio Rampini 2017
I modi di trattare il legno pure anche strettamente legati alla nostra tradizione storico-artistica, sono pressoché infiniti, ed anche di fronte a risultati esteticamente convincenti, non abbiamo al momento prove evidenti di essere giunti a qualcosa di paragonabile ai legni degli strumenti antichi.
Nota bene, qui parliamo di vernici e preparazioni del legno, trascuriamo per amore di concisione e brevità il loro ruolo acustico, perché è essenziale che il “problema vernice” vada scomposto nelle sue parti affinché siano oggetto di studio serio ed attendibile. Va da sé che le positive influenze sul suono delle vernici oleoresinose realizzate secondo ricette e metodi antichi (la più classica e comune: colofonia cotta con sali metallici ed unita ad olio di lino nella proporzione consueta di 1:1), siano accadute in modo quasi casuale, poiché la loro natura leggera ed elastica, unitamente a strati insolitamente sottili (almeno rispetto alle moderne vernici poliresinose a base alcolica), hanno indubbi effetti positivi sul suono di un buono e ben costruito strumento ad arco.
Supporta il Portale del Violino disattivando il tuo ad blocker (blocco della pubblicità). La pubblicità ci aiuta a servirvi al meglio. Grazie!
Please support this website by adding us to your whitelist in your ad blocker. Ads are what helps us bring you premium content! Thank you!